Uomo vivo che cammina (Living man walking)

Uomo morto che cammina (dead man walking) è un’espressione usata negli Stati Uniti per indicare un prigioniero, già condannato a morte e per questo imprigionato in un braccio apposito delle carceri americane, il quale compie il suo ultimo percorso a piedi, nel giorno dell’esecuzione della condanna, dalla cella al patibolo.

Uomo vivo che cammina è una condizione che sto sperimentando – o, almeno, mi impegno, con l’aiuto del buon Dio, a sperimentare – da un po’ di tempo a questa parte e che cerca di conciliare la figura di Innocenzo Smith, nel libro Le avventure di un uomo vivo di Gilbert K. Chesterton, con quella dell’homo viator del Medioevo.

Innocenzo Smith è un eccentrico personaggio che riesce a cambiare in meglio le situazioni e le vite delle persone in cui si imbatte, nonostante sia ingiustamente accusato di vari crimini, per il semplice fatto di essere un uomo felice il quale desidera trasmettere agli altri la gioia della propria condizione. Attraverso di lui, anche ciò che è male sembra tramutarsi in bene. Egli è l’uomo vivo.

L’homo viator, invece, è l’uomo medioevale per eccellenza, un pellegrino per definizione, un essere che consacrava e riconsacrava continuamente non solo se stesso, percorrendo le vie sacre dell’Europa del Medioevo (sia quelle maggiori, come la Francigena, quella di Santiago de Compostela o quelle verso Gerusalemme, sia le minori, intorno e dentro alla Città Eterna, Roma, capitale della cristianità), ma anche queste stesse vie, per cui egli diveniva, antropologicamente, strumento di una teofania, di una manifestazione del divino, attraverso le preghiere e il cammino che egli compiva.

Nell’antropologia del Medioevo ciò che distingueva lo spazio (caos) dal luogo (kosmos) era, infatti, la presenza del sacro, per via del quale ciò che era selvaggio, ricco di demoni e superstizioni, inesplorato e incivile, diveniva consacrato a Dio, civile, ben ordinato, governato, sicuro. Le vie sacre e i santuari dell’Europa medioevale erano arterie di civiltà e sacralità su un territorio altrimenti barbarico, mentre i pellegrini che le percorrevano erano il sangue che vi scorreva, un sangue foriero di divinità civilizzatrice.

Qualche mese fa, ho iniziato ad unire, nella mia vita, i due concetti di uomo vivo e di homo viator grazie ad alcune pratiche particolari e costanti: la santa messa all’inizio della mia giornata e il recarmi al lavoro camminando e pregando – per amici e nemici – lungo la strada. Ovviamente, non mi ritengo neanche lontanamente degno di essere paragonato né al personaggio di Innocenzo Smith né ai pellegrini medioevali, tanto più che non sono certamente capace, come Innocenzo, di tramutare in bene ciò che è male nell’esistenza mia e di chi mi circonda, oltre al fatto che il mio percorso a piedi è alquanto breve e privo di qualsiasi tipo di difficoltà. Tuttavia, il nutrirmi quotidianamente alla fonte della vita mi fa sentire realmente un uomo vivo e mi induce a sperare di poter divenire, nella mia misera persona, portatore della grazia e della gioia che ho ricevuto.

Vedere Roma ancora assopita, alle prime luci del mattino e senza le orde di turisti che la affolleranno di lì a qualche ora, è un’esperienza stupenda. Il mio percorso giornaliero si snoda tra la chiesa di Santa Maria in Vallicella, dove riposa San Filippo Neri, e Piazza dei Santi Apostoli, nella cui basilica si trovano le reliquie dei santi Filippo e Giacomo. Dopo la celebrazione mattutina, inizio a camminare recitando il rosario. Incontro varie persone, uomini e donne pellegrini, come me, in questo mondo: ci sono suore e sacerdoti, operai e addetti alla nettezza urbana, pendolari che si recano a lavorare con aria imbronciata e malinconica, i primi gruppetti di visitatori che avanzano con fare un po’ smarrito e gli studenti che si affollano intorno alle scuole e, soprattutto, intorno ai bar per la colazione. Cammino verso la statua di Pasquino e, continuando a pregare, mi soffermo per un attimo sulle lagnanze e le recriminazioni scritte su fogli di carta affissi intorno al monumento. Non devo maledire – mi è stato detto – bensì pregare per i miei nemici, benché essi mi facciano del male, sicché mi lascio Pasquino e le sue lamentele alle spalle e mi dirigo verso Piazza Navona. Arrivare in questo luogo di mattina presto è come sentirsi aprire gli occhi e il cuore, come se i sensi si risvegliassero dopo le tenebre ed il riposo della notte. I colori pastello dei palazzi, l’armonia delle fontane e dei monumenti, il sole ancora basso nel cielo a illuminare con i suoi raggi tiepidi e dolci le pietre antiche, l’acqua, le poche persone presenti: tutto, qui ed ora, è un inno alla bellezza. La mia preghiera continua, rinnovata e rinforzata da quanto ho appena ammirato. Posso riprendere la marcia. Attraverso la strada, rischiando non poche volte di essere investito dalle numerose auto blu che sfrecciano da queste parti: mi trovo di fronte al Senato. Prima di arrivare a piazza Sant’Eustachio, dove riposa l’omonimo santo, comincio a notare pomposi senatori che, tutti avvolti in eleganti soprabito e circondati da portaborse, si accingono a decidere anche oggi il destino del nostro Paese: di che cosa si occuperanno questa mattina?

Sant’Eustachio è una piazza bellissima, tranquilla, quasi di paese. I numerosi negozietti della zona, oltre che i famosi bar, già si apprestano ad alimentare il corpo e lo spirito degli avventori. Il Pantheon, gloria del nostro passato e monumento del nostro presente, è alla mia sinistra quando passo per il luogo del trapasso di Santa Caterina da Siena, per poi arrivare alla piazza ove si erge la chiesa in cui la grande mistica e dottore della Chiesa è sepolta. La mia preghiera continua, tra mille fonti di distrazione e mille sforzi per richiamare l’attenzione sulle persone per cui essa si eleva a Dio. Chiedo alla santa, compatrona d’Italia, di vegliare sul nostro Paese ed intercedere per esso. Manca poco, ormai, alla mia destinazione. Percorro la grande piazza del Collegio Romano e, oltrepassando Via del Corso, con alla mia destra Santa Maria in Via Lata, giungo infine al luogo in cui trascorrerò la mia giornata.

Posso dire di aver incontrato, in poco più di un chilometro, tra i più grandi santi della storia. In più, portando Cristo dentro di me e sulle mie labbra, immagino che ogni mio passo ed ogni mia parola siano una goccia dell’acqua viva che ho appena bevuto e che andrà a benedire le ignare persone che ho incontrato e la terra che ho calpestato, con la speranza di aver portato un po’ della santità che ho ricevuto – e la cui fonte non sono certo io – per le vie dell’Urbe, bagnate e ribagnate dal sangue e dalle lacrime di tutti i martiri e i santi che in queste stesse strade hanno camminato, pregato, operato prodigi, sono morti, sono sepolti.

Io, uomo vivo perché vivificato, ho riconsacrato con il mio peregrinare, come homo viator, una terra e una città già sante ma molte, troppe volte profanate.

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