Amo il mio Paese, ne contemplo le bellezze dal finestrino di un treno che sfreccia a trecento all’ora per la campagna umbra, così come da un autobus che percorre un’autostrada e delle vie di campagna; sazio la sete di bellezza dei miei occhi con i colori dei suoi paesaggi, con l’azzurro del suo mare e il bianco delle sue vette. Le colline verdeggianti e i cipressi della Toscana mi sono cari quanto le brulle e spoglie terre del sud, dove l’acqua manca, e le montagne e i fiumi del nord. Le mie orecchie si dilettano al suono della sua lingua melodiosa quanto una musica, nata per la poesia e il bel canto, e le mie dita toccano le sue pietre antiche come accarezzerebbero il corpo di un’amante.
E poi c’è il suo cuore: la Città Eterna, il luogo in cui, più di ogni altro, s’incarnano i vizi e le virtù, il genio e la sregolatezza del suo popolo, un brulicare di vite che tentano ogni giorno di resistere agli assalti di orde di cavallette sempre pronte a succhiarne e rubarne lo spirito e l’identità.
Tante volte avrei desiderato andare a cercar fortuna altrove, per sentirmi più valorizzato, e ci ho anche provato. Alla fine, però, sono tornato indietro. In quale altro luogo, infatti, può la mia anima trovare pace se non qui, dove la fede è più viva, dove ci sono gli affetti, le radici e tanta, tanta bellezza? Dove mai i miei occhi possono provare tanta ammirazione se non nelle strade di Roma, in una mattinata di sole, quando non c’è tanta gente in giro e i turisti non hanno ancora preso d’assalto il cuore della mia città? Quale gusto può provare la mia bocca parlando una lingua barbara che non sia quella materna, forgiata da santi e poeti per servire da strumento a un popolo che un tempo amava la bellezza più d’ogni altra cosa?
Il nostro Paese, la nostra cultura e la nostra fede non vivono certo un bel momento, eppure io non temo perché ho il mio Dio e le radici salde della mia terra, il cui estro, il cui genio e la cui creatività rendono al massimo proprio nei momenti di maggiore apparente oscurità. Semmai, dovremmo ricordare a noi stessi che il concetto di bellezza da noi stessi modellato, eredità del pensiero dei padri greci e latini, su cui il seme cristiano è potuto germogliare, è quello del Bello che non può esistere senza il Vero e il Buono. Questi tre elementi sono l’uno indispensabile all’altro e non possono trovare una vera espressione se non quando sono presenti insieme. Quando, nel nostro Paese, vi era armonia tra bellezza, verità e bontà, l’Italia era il faro del mondo.
Nel mio piccolo, posso dire di aver trovato un posto in cui, oltre a sentirmi autenticamente cristiano, posso essere pienamente italiano, fedele alla complessità di significati che tale aggettivo racchiude in sé: esteta, amante dell’arte, dell’ironia, della vita vissuta con gli altri, della buona tavola e del buon vino, della Parola di Dio, dell’amicizia e della musica. Questo posto è l’Oratorio di San Filippo Neri, fondato dal santo in persona nel XVI secolo e tuttora in attività, identico all’originale.
Attori e sceneggiatori, musicisti e scrittori, giornalisti, ingegneri ed architetti, pensatori, impiegati e studenti, lavoratori, professionisti di ogni tipo, semplici curiosi divengono in quel luogo degli amici, i quali, pregando e mettendo insieme fede, entusiasmo, affetti, passioni e capacità, lottando insieme contro l’egoismo e l’individualismo, nonché contro il sentimentalismo ed il buonismo che permeano la società contemporanea, fondano la propria esistenza sulla roccia della Parola di Dio e danno vita a un incredibile laboratorio che produce bellezza, bontà e verità nel migliore spirito del genio italiano.
Come un popolo senza patria, e come nel “Va’ pensiero” di Verdi, anch’io spesso mi ripeto: “arpa d’or de’ fatidici vati, perché muta dal salice pendi?”. Dov’è lo spirito del mio popolo, dove sono le sue radici e la sua storia, dov’è nascosto il suo genio profetico, la creatività, l’ardore per la bellezza? Perché abbiamo appeso al chiodo la nostra anima, sicché essa rimanga muta e non parli alle nazioni e al mondo come nel tempo che fu? Siamo come raminghi in esilio, perle preziose che accettano inermi di seppellire se stesse sotto strati e strati di sudiciume e fango, lasciando che altri decidano per noi, che barbari ci impongano di violare la nostra natura, i nostri valori, la nostra fede.
Ciò avviene, a mio avviso, perché abbiamo tolto al lavoro, all’arte, alla creatività la base per la loro stessa esistenza: la preghiera. I capolavori del genio del nostro Paese sono nati in luoghi di preghiera, giacché il senso della nostra esistenza era “ora et labora”, mentre oggi abbiamo privato il fare dell’essere e l’arte non è più al servizio dell’uomo, bensì di se stessa e della quantomeno discutibile immaginazione di certi professionisti del settore.
L’Oratorio di San Filippo Neri è, invece, come una ginestra che cresce in luoghi aspri e sperduti, dove la vita non sembrerebbe possibile (Leopardi descriveva questo fiore in una sua magnifica poesia): è nato in un contesto di crisi e di precarietà, di riforme e controriforme e diviene, oggi come allora, un laboratorio che ridona sollievo a un Paese ferito, costruisce sulle macerie di una civiltà e offre speranza a chi l’ha persa. E’ un luogo in cui, negli occhi di un amico, ritrovi te stesso, giacché quell’amico ti guarda con gli occhi di Dio, ti ricorda chi sei e che vali molto di più di quanto guadagni e del mestiere che fai, ti spinge a credere e a sperare ancora, anche se il mondo intorno a te vaga nelle tenebre e vive alla giornata, ti fa avere voglia di spenderti ancora per quest’Italia che di molto ha bisogno ma che ha ancora tanto da dire e tanto da dare al mondo intero. In questo luogo io mi sento un patriota, un italiano vero.
In un’epoca di grandi e vuote promesse mai realizzate e di sogni infranti, esiste un luogo dove “ora et labora” sono la base per produrre ciò che è Vero, Bello e Buono, formare nella speranza e nell’amore per la beltà le menti dei giovani, dare loro la consapevolezza dell’arte come mezzo per comunicare all’uomo che la sua origine non è di questo mondo e che, per comprendere meglio se stesso, egli dovrà guardare in alto, a Colui che l’ha creato, per trovare un senso alla propria esistenza.
“O t’ispiri il Signore un concento che ne infonda al patire virtù”: è ciò che si fa in questo lab-oratorio italiano, ovvero lasciare che il Signore crei un’armonia tra talenti, storie e persone diverse, una sinfonia che, poco a poco, ridonerà al nostro Paese la consapevolezza della sua magnificenza e delle proprie radici nascoste, ma non perdute per sempre.
Discorso del Santo Padre Benedetto XVI agli artisti, Roma, 2009
Un articolo che fa sognare, un manifesto per riscoprire la Bellezza e usarla per il benessere di tutti i cittadini!
Complimenti “zio”.
Peccato che non è possibile (o non l’ho trovato!?) condividere il tuo post. Perché non attivi anche tu questo servizio?
Comunque grazie! E grazie di averlo postato in un giorno importante per me… quello del mio compleanno 🙂
Ciao. È possibile condividere il mio post, anche solo copiando il link. Auguri!
Grazie! Ma prossimamente perché non inserisci il “pulsante” per la condivisione via mail dei tuoi post, così come nel blog di Costanza?
e come si fa?
Fatto
L’ha ribloggato su Lacapannadellozioblog.