Tengo famiglia!

Il rischio di familismo e autoreferenzialità nella società e nella Chiesa

“Tengo famiglia” è un’espressione icastica italiana, coniata dallo scrittore e intellettuale Leo Longanesi, che intende rappresentare il malcostume, presente in una certa “cultura latina”, di coprire o avallare determinati reati o comportamenti scorretti (come rubare, non pagare le tasse, corrompere ed essere corrotti) con la scusa di farlo per la propria famiglia, o comunque per una ragione valida e giustificabile. Sebbene questa espressione rischi di alimentare pregiudizi e stereotipi sulla società e sulla cultura italiana e latina in generale, potrebbe comunque essere rappresentativa di una certa tendenza “romana” (e per “romana” non intendiamo la città di Roma) a “normalizzare”, o ad accettare come dati di fatto, una serie di attitudini completamente erronee in nome di un presunto “interesse superiore”.

In ambito secolare, ad esempio, questo potrebbe sfociare nel cosiddetto “familismo amorale”, un concetto sociologico introdotto da Edward C. Banfield nel suo libro del 1958 The Moral Basis of a Backward Society.

Il familismo amorale

Bansfield sviluppò questa teoria a partire da una proposizione: alcune società presentano marcate caratteristiche di arretratezza economica e sociale rispetto ad altre. Gli studi da lui condotti, quindi, miravano a stabilire come mai tali società fossero, a suo avviso, più “arretrate” o problematiche.

Chiaromonte (PZ)

Per le ricerche sul campo, Banfield passò nove mesi tra il 1954 e il 1955 a Chiaromonte, in provincia di Potenza, in Basilicata, e sottopose la popolazione di questo paese lucano a una serie di interviste, test psicologici, comparando i dati con quelli di archivi pubblici e privati sia di Chiaromonte che di altre comunità rurali come la provincia di Rovigo o il Kansas.

La sua conclusione è che la cultura di tali comunità sarebbe caratterizzata da una concezione estrema dei legami familiari, a scapito della capacità associativa e dell’interesse collettivo. Gli individui, cioè, sembrano agire per massimizzare esclusivamente benefici e vantaggi materiali e a breve termine per il proprio nucleo familiare, dando per scontato che tutti agiscano allo stesso modo.

Sarebbe questa particolare etica delle relazioni familiari, secondo Bansfield, la causa dell’arretratezza delle società da lui studiate, come quella dell’Italia meridionale. Bansfield chiamò la sua teoria “familismo amorale” perché l’individuo perseguirebbe solo l’interesse del proprio nucleo familiare e mai quello della comunità, cosa che invece richiede la cooperazione tra persone non consanguinee; e lo farebbe in modo a-morale perché, con questo atteggiamento, applicherebbe le categorie di giusto e sbagliato e bene e male soltanto ai membri della propria famiglia e non a quelli della comunità intera (lo Stato, la società in generale, ecc.).

Il familismo amorale in ambito ecclesiastico e politico: il nepotismo

In ambito ecclesiastico e politico, il familismo amorale coincide con il nepotismo, che si produce quando chi detiene una particolare autorità o potere favorisce i propri parenti (o gli amici più stretti), a motivo del rapporto di familiarità e amicizia che lo lega a costoro, piuttosto che per le effettive capacità e competenze che questi possiedono.

Il termine deriva dalla parola latina nepos, che significa “nipote”, poiché nel Medioevo alcuni papi avevano figli illegittimi che riconoscevano come nipoti e ad essi distribuivano cariche e privilegi.

Nella Chiesa o in politica, pertanto, può accadere che un uomo di potere o un ecclesiastico assuma o promuova, facendogli assumere un incarico o una posizione più o meno importante, un parente o un amico anziché un estraneo maggiormente qualificato, il che non solo va a detrimento dell’istituzione, dell’azienda e della collettività, ma conduce altresì a un’eccessiva concentrazione del potere nelle mani di un gruppo ristretto di persone, che può essere una famiglia, una corporazione o un manipolo di amici e parenti, ostacolando l’accesso meritocratico all’istituzione coinvolta e, di conseguenza, il corretto funzionamento di quest’ultima. Ciò, naturalmente, può portare alla perdita di indipendenza e di credibilità morale dell’istituzione stessa (Stato, Chiesa, azienda, ecc.).

Conseguenze del familismo amorale nella società

A livello sociale, le conseguenze del familismo sono varie, ma ne citeremo tre su tutte:

  • non si persegue più l’interesse comune, ma il proprio vantaggio o quello della propria famiglia o del proprio gruppo ristretto di amici;
  • la persona o l’istituzione che pretenda di contrapporsi a questo malcostume, agendo nell’interesse pubblico o secondo una visione più ampia, sarà considerata un nemico;
  • perdita di identificazione con gli obiettivi dell’organizzazione o istituzione che si serve e di vocazione o di senso della missione.

Nella società civile, tutto questo conduce ad alcune derive che possono essere drammatiche. Si pensi, ad esempio, al votare per un partito o un rappresentante politico che non rappresenta il bene della società, ma ha fatto determinate promesse a me o alla mia famiglia in cambio del mio sostegno; all’assumere o far assumere, in un’azienda pubblica o privata, un lavoratore solo perché è un parente o un amico, sebbene non costituisca la scelta migliore per quella particolare azienda; al trattare i cittadini o i sottoposti in modo diverso sulla base di legami familiari o di amicizia e non già delle capacità e dei valori morali e personali di questi ultimi.

Se tutto ciò è grave da un punto di vista meramente umano e sociale, lo è ancor più dal punto di vista cristiano, giacché si tratta di privilegiare interessi privati e personali o familiari, dimenticando la dottrina sociale della Chiesa che, in documenti come la Gaudium et spes (32), sottolinea quanto segue:

Dio creò gli uomini non perché vivessero individualisticamente, ma perché si unissero in società. [—] Tale carattere comunitario è perfezionato e compiuto dall’opera di Cristo Gesù. [—] Egli si sottomise volontariamente alle leggi della sua patria. Volle condurre la vita di un artigiano del suo tempo e della sua regione. Nella sua predicazione ha chiaramente affermato che i figli di Dio hanno l’obbligo di trattarsi vicendevolmente come fratelli. Nella sua preghiera chiese che tutti i suoi discepoli fossero una « cosa sola ». Anzi egli stesso si offrì per tutti fino alla morte, lui il redentore di tutti. « Nessuno ha maggior amore di chi sacrifica la propria vita per i suoi amici » (Gv15,13). Comandò inoltre agli apostoli di annunciare il messaggio evangelico a tutte le genti, perché il genere umano diventasse la famiglia di Dio, nella quale la pienezza della legge fosse l’amore. Primogenito tra molti fratelli, dopo la sua morte e risurrezione ha istituito attraverso il dono del suo Spirito una nuova comunione fraterna fra tutti coloro che l’accolgono con la fede e la carità: essa si realizza nel suo corpo, che è la Chiesa. In questo corpo tutti, membri tra di loro, si debbono prestare servizi reciproci, secondo i doni diversi loro concessi. Questa solidarietà dovrà sempre essere accresciuta, fino a quel giorno in cui sarà consumata.

In questo senso possiamo anche citare le parole dello stesso Cristo, che affermò di essere venuto sulla terra per “dividere il figlio da suo padre, e la figlia da sua madre, e la nuora dalla suocera”, tanto che “i nemici dell’uomo saranno quelli di casa sua”. Ciò, ovviamente, non significa affatto che il cristiano debba creare inimicizia con e tra i membri della propria o di altre famiglie, bensì riaffermare che l’appartenenza alla comunità umana e cristiana basata sul battesimo va oltre i legami di sangue, e ne è anzi molto più importante.

Non si può vivere il paradiso borghese nella propria famiglia senza pensare e occuparsi degli altri che ne stanno fuori e magari stanno vivendo un inferno fatto di solitudine e di povertà materiale e spirituale!

Il rischio di familismo e clericalismo (o comunitarismo) nella Chiesa

Le conseguenze di una visione familista e comunitaria, a livello ecclesiastico, sono, se vogliamo, ancora peggiori: come non pensare alla chiusura, all’autoreferenzialità, al clericalismo, al cercare a tutti i costi di nascondere la testa sotto la sabbia anche di fronte a enormi scandali, abusi di potere e di altro tipo? Il desiderio di “proteggere” alcuni membri della propria comunità e famiglia religiosa, magari con l’intento di non dare scandalo o solo per mancanza di coraggio, virilità, paternità (e umanità!), in realtà non fa altro che gonfiare situazioni già precarie che alla fine esplodono non solo provocando uno scandalo anche maggiore ma qualcosa di ben più pericoloso: la perdita di credibilità degli uomini e delle donne di Chiesa, nonostante l’enorme lavoro che la Chiesa stessa svolge ogni giorno per il benessere spirituale e umano di milioni di uomini e donne in ogni parte del mondo.

Papa Francesco, nel suo discorso del 25 maggio 2023 all’Assemblea generale dei vescovi italiani, che nell’ultimo giorno di lavori ha compreso anche agli animatori laici del “cammino sinodale”, ha dichiarato che “a volte si ha l’impressione che le comunità religiose, le curie, le parrocchie siano ancora un po’ troppo autoreferenziali. [—] Sembra che si insinui, un po’ nascostamente, una sorta di “neoclericalismo di difesa” – il clericalismo è una perversione, e il vescovo, il prete clericale è perverso, ma il laico e la laica clericale lo è ancora di più: quando il clericalismo entra nei laici è terribile! –: il neoclericalismo di difesa generato da un atteggiamento timoroso, dalla lamentela per un mondo che ‘non ci capisce più”, dove ‘i giovani sono perduti’, dal bisogno di ribadire e far sentire la propria influenza”.

Verso una maggiore “sinodalità” della Chiesa

Nello stesso discorso, il Papa ha esortato ad ascoltare le voci che ancora oggi nella Chiesa “vengono coperte se non zittite o ignorate”, le voci di “quanti si sentono inadeguati, magari perché hanno percorsi di vita difficili o complessi””. ” e che “a volte sono ‘scomunicati’ a priori”.

Sono parole forti che si inseriscono in un percorso già tracciato da Francesco fin dall’inizio del suo pontificato, quello della lotta al clericalismo e del ripristino di una maggiore sinodalità all’interno della Chiesa cattolica, come già auspicato dai suoi predecessori, da Giovanni XXIII a Paolo VI fino a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Secondo il Papa, questo cammino sinodale dovrebbe produrre “comunità cristiane nelle quali si allarghi lo spazio, dove tutti possano sentirsi a casa, dove le strutture e i mezzi pastorali favoriscano non la creazione di piccoli gruppi, ma la gioia di sentirsi corresponsabili”.

Ma cos’è questa sinodalità di cui tanto si parla? “Sinodo” è un termine che deriva dal greco σύνoδος, una parola composta dalla preposizione σύν (syn) e dal sostantivo ὁδός (odós), cioè “cammino condiviso”, e indica appunto un cammino percorso insieme dai membri del popolo di Dio, uniti, come spiega San Giovanni Crisostomo, dalla stessa mente (ὁμονοία). In latino può essere tradotto come synodus o concilium. Già alla fine del Concilio Vaticano II, convocato da Giovanni XXIII, Paolo VI, secondo il Pontefice attuale, “si è accorto che la Chiesa in occidente aveva perso la sinodalità”. Tuttavia, questa sinodalità “non è cercare le opinioni della gente e neppure un mettersi d’accordo”, bensì perdere quell’autoreferenzialità che è sempre un rischio in qualsiasi gruppo sociale, istituzione, comunità.

In questo senso, citiamo quanto affermato dal Card. Gianfranco Ravasi quando scrive, in un articolo su Avvenire del 2006 proprio in riferimento a Longanesi e al suo “tengo famiglia”, oltre che all’arte del compromesso:

Tener conto del conflitto dei valori, che talora possono entrare in contrasto tra loro, è legittimo. Il compromesso diventa pericoloso quando si fa compromissione, ossia cedimento per vantaggio personale, magari ammantato sotto la scusante della necessità. Il compromesso può essere un accordo; la compromissione è, invece, mettere in secondo piano coerenza e moralità e impegolarsi in un territorio paludoso e inquinato, fingendo di tener alta la bandiera dei principi. Alla fine il risultato è, sì, vantaggioso per i propri interessi ma sfavorevole per la coscienza e per il prossimo.

La sinodalità, dunque, non è compromissione, bensì l’antidoto a una certa “anti-odalità” (il contrario, se mi si permette questo neologismo, di sinodalità), cioè il settarismo, l’autoreferenzialità, che, dice Papa Francesco, è “un po’ come la teologia dello specchio: mi guardo allo specchio, mi trucco, mi pettino bene? Questa è una bella malattia, una bella malattia che ha la Chiesa: l’autoreferenzialità, la mia parrocchia, la mia classe, il mio gruppo, la mia associazione”.

La Chiesa è quindi, secondo il Pontefice, una casa, una famiglia dove tutti, sacerdoti, religiosi e laici, possano, secondo un’espressione italiana derivata dal gergo ecclesiastico, “avere voce in capitolo”, cioè avere il diritto di essere ascoltati, proprio come i religiosi quando tengono il loro capitolo generale, e partecipare in modo attivo, non solo passivo, alla vita della comunità ecclesiale. Occorre, pertanto, “riscoprirsi corresponsabili nella Chiesa”, il che “non equivale a mettere in atto logiche mondane di distribuzione dei poteri, ma significa coltivare il desiderio di riconoscere l’altro nella ricchezza dei suoi carismi e della sua singolarità”.

Papa Francesco afferma infine che “una Chiesa sinodale è tale perché ha viva consapevolezza di camminare nella storia in compagnia del Risorto, preoccupata non di salvaguardare sé stessa e i propri interessi, ma di servire il Vangelo in stile di gratuità e di cura, coltivando la libertà e la creatività proprie di chi testimonia la lieta notizia dell’amore di Dio rimanendo radicato in ciò che è essenziale. Una Chiesa appesantita dalle strutture, dalla burocrazia, dal formalismo faticherà a camminare nella storia, al passo dello Spirito, rimarrà lì e non potrà camminare incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo”.

Sebbene una tale molteplicità di voci e di punti di vista possa spaventare e produrre, almeno all’inizio, disarmonia, disordine e caos, il Pontefice incoraggia ad andare avanti in questa lotta contro il familismo, il settarismo, l’autoreferenzialità, il comunitarismo e il clericalismo: “Quando sono entrato uno di voi mi ha detto un’espressione molto argentina, che non ripeto, ma ha una bella traduzione in italiano, che forse lui dirà… Una cosa che sembra disordinata… Pensate al processo degli Apostoli la mattina di Pentecoste: quella mattina era peggio! Disordine totale! E chi ha provocato quel ‘peggio’ è lo Spirito: Lui è bravo a fare queste cose, il disordine, per smuovere… Ma lo stesso Spirito che ha provocato questo ha provocato l’armonia. Entrambe le cose sono fatte dallo Spirito, Lui è il protagonista, è Lui che fa queste cose. Non bisogna avere paura quando ci sono disordini provocati dallo Spirito; ma averne paura quando sono provocati dai nostri egoismi o dallo Spirito del male. Affidiamoci allo Spirito Santo. Lui è l’armonia. Lui fa tutto questo, il disordine, ma Lui è capace di fare l’armonia, che è una cosa totalmente diversa dall’ordine che noi potremmo fare da noi stessi”.

Lascia un commento