Bello (Abramo)

fuoco-nel-deserto

Parole al vento in una notte d’autunno

Per tutta la mia vita la bellezza mi ha inseguito. Io fuggivo via, lontano da lei.

Si mostrava a me tra le spiagge e gli oceani, tra colline e vallate, ma non la vedevo. Troppe volte le ho preferito pallide imitazioni del suo splendore, amanti occasionali che si prostituivano a me e cui io mi prostituivo.

Lei mi correva dietro, seguiva le mie orme sul bagnasciuga, mi chiamava ma non la sentivo, forse non volevo sentirla. Il rumore delle onde era troppo forte. Volevo solo andar via.

Stranamente, rifiutavo l’idea che lei volesse proprio me, che la Bellezza suprema avesse visto qualcosa di bello in ciò che ero, in ciò che sono. Dunque, mi nascondevo alla sua vista, la respingevo, facevo finta di non esistere, mi ubriacavo per intorpidire i miei sensi e affogare la mia speranza. Non osavo pensare a lei.

Tentavo di tenere occupata la mia mente con mille pensieri e faccende, mi sforzavo di ignorare i raggi di sole che illuminavano il volto di lei, la brezza leggera che le accarezzava la pelle e sollevava i lembi della sua veste bianca. Lei era bella di notte e di giorno, all’aurora e al tramonto e mi attendeva con la mano tesa.

Mi trovava dovunque andassi. Non avevo bisogno di cercarla, era sempre lì.

Cantava una melodia irresistibile mentre passanti distratti le scorrevano accanto senza ascoltarla ed io con loro.

Vivevo beato tra capre, armenti e brandelli di tende, stracci piantati in un deserto arido e sabbioso nel quale avevo scelto di rifugiarmi. Non so, forse mi rendevo conto che quella misera esistenza non avrebbe appagato la mia sete di verità, di eternità, ma che importa – mi ripetevo, me la sarei fatta bastare. In fondo, guardare al di là dell’orizzonte mi faceva paura.

Una notte, mentre tutti dormivano, sono stato colto da grande angoscia.

Ero solo. Sopra di me, l’immensa volta del cielo e miliardi di stelle. Tutt’intorno, silenzio, un silenzio assordante, insopportabile, tanto che avrei voluto gridare per svegliare tutti, affinché voci, belati, rumori, suoni, grida, strepiti tornassero a riempire il vuoto che, fuori e dentro di me, mi soffocava.

Sono caduto in ginocchio, per terra, davanti al fuoco acceso ed è allora che l’ho vista arrivare. Stanco e atterrito com’ero, non potevo più fuggire e lei lo sapeva. Avanzava calma, pacifica, serena. Il sorriso a labbra chiuse mostrava comprensione. I piedi nudi nella sabbia morbida e fina si muovevano con grazia e leggiadria, smuovendo appena un po’ di polvere e l’aria si riempiva subito del suo profumo.

Arrivava proprio di fronte a me, oltre il fuoco, e lì si fermava.

L’ho guardata, l’ho contemplata, non so per quanto. Improvvisamente, intorno a me nulla ha avuto più importanza, o meglio ne ha avuta, sì, ma ho stranamente realizzato che le capre erano soltanto capre, le tende non erano affatto regge sfarzose e la steppa non era un pascolo. Come avevo potuto non accorgermene prima?

La Bellezza mi ha svelato il suo nome. Non riesco a ricordarlo con precisione, forse ne aveva più d’uno: sapienza, verità, giustizia… Quale sarà stato il primo che ha pronunciato? Sarà stato l’unico? O magari la mia mente era troppo piccola e aveva bisogno di più parole per identificare un solo concetto divino, universale, assoluto?

So solamente che, tutto a un tratto, ho desiderato con tutto me stesso di essere sapiente, volevo, cioè, che la mia esistenza avesse un sapore, che non fosse più insipida. Ho voluto essere bello, come non sapevo, come non volevo essere prima e non sarei mai riuscito a diventare da solo. Ed ho sentito il bisogno di saziare, finalmente, la mia sete di giustizia e di verità.

Mi è stato promesso che da me sarebbero nate nazioni e che la mia discendenza sarebbe stata più numerosa di quelle stelle che vedevo lassù nel cielo e della sabbia del mare, il cui profumo sentivo tra le narici, quell’aria salmastra che inebriava la mia anima ma cui non ero abituato, avendo scelto di abitare lontano dal mare e dalla sua infinita e maestosa, spaventosa vastità.

Mi sono alzato e sono partito per non far più ritorno. Non ho perso le mie pecore e le mie capre, tanto preziose per me, giacché esse, stranamente, mi hanno seguito, forse attratte anch’esse dal richiamo irresistibile che mi spingeva a camminare sotto il sole, nell’arsura, verso un Paese lontano.

Da allora, vivo lasciandomi spremere come l’uva, ansioso di produrre vino e nettare, frutti succosi e dolci. Semino da mattina a sera, spaccandomi la schiena, anche quando non vedo germogliare nulla, nessuna pianticella che asciughi le mie lacrime sparse gettando via, al vento, quella preziosa semente.

Fatico tanto, la mia esistenza non è certo divenuta più agevole, anzi. In questo nuovo Paese, tra latte e miele, vivono molti nemici, sempre pronti ad attaccarmi e a portarmi via tutto e spesso ci riescono. E’ allora che mi chiedo se la mia scelta sia stata quella giusta, perché non ho più niente tra le mani, persino le mie capre sembrano essere sparite laggiù, oltre il deserto, alla ricerca di pascoli migliori.

Poi, mentre tutto sembra perduto, lei riappare, il solo vederla mi rammenta perché sono lì e ritorno a sognare, a creare, a sudare ed a spargere la mia semente davanti, dietro, a destra e a sinistra, non sapendo se essa porterà mai frutto.

Ma è lei che mi dice di farlo ed io non posso, non riesco a dirle di no.

Sono nato per servire lei, la Bellezza, con queste mie povere membra, con la lingua secca per l’arsura e la calura, con le mani piagate dalla fatica e la schiena spezzata. Lei, però, è la Bellezza, la mia Bellezza. E con lei sono bello anch’io.

La terra che mi ha promesso è dura, difficile da coltivare e non è ancora divenuta come lei me l’ha descritta, ma la sto già lavorando e vi sto gettando la mia semente. Un giorno diverrà un paradiso, lo so.

Sono Abramo, padre di moltitudini che non conosco. E tuttavia, il chicco di grano conosce forse la spiga che da lui nascerà?

 

 

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