La parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto (Vangelo secondo Luca 3, 2)
Qualche tempo fa, in un articolo incentrato sulla mia voglia di pace e isolamento dal caos urbano, avevo già scritto che, in ebraico, midbar (מדבר) significa “deserto” e che questo termine, a sua volta, è composto dalla radice דבר (davar), che vuol dire “parola”, cui si aggiunge la particella privativa מ (mi). In ebraico, quindi, il termine deserto indica l’assenza di parola. L’evangelista Luca utilizza, dunque, nel versetto citato all’inizio, un’espressione che, per chi non conosce le lingue semitiche come l’ebraico, nonché la mentalità degli utilizzatori di tali lingue, non è possibile comprendere in pieno. La parola di Dio, infatti, non è scesa solamente nel deserto, bensì dove non c’era parola, dove non c’era Dio.
Se poi consideriamo il particolare periodo cui San Luca fa riferimento (nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa), otteniamo altre informazioni: non è identificato solamente un momento storico, ma anche uno stato d’animo, una situazione, un turbamento. Il popolo ebraico attende la liberazione. Non ha più indipendenza, è schiavo, è smarrito. Il suo destino è segnato e deciso da governanti stranieri, distanti culturalmente e geograficamente, pagani, lontani da Dio.
Il fatto di sapere che la parola di Dio si degni di scendere dove essa non è presente, dove essa ancora non regna mi riempie di consolazione. Dopo più di duemila anni (nell’anno dodicesimo del ventunesimo secolo, mentre Monti è presidente del Consiglio dei ministri in Italia, Barroso della Commissione Europea, Obama degli Stati Uniti), noi, uomini e donne di questo secolo, siamo ancora confusi, ancora non liberi, ancora governati da persone sempre più lontane da ogni riferimento religioso e spirituale, nonché umano, dalle nostre radici, dalla nostra cultura, dai nostri sentimenti. E’ un tempo senza principi fondamentali, privo di idee ed in cui valori assoluti, come la vita e la dignità dell’uomo, vengono continuamente messi in discussione, annientati e lo stesso avviene per le persone che li difendono e che sono calpestate quotidianamente da chi di quegli stessi principi si fa beffa.
Tutto, oggi, è superficiale e si desidera che tale rimanga. Il nostro modo di parlare non è più ricercato, ma volgare; i nostri gesti e i nostri bisogni esprimono il vuoto che è dentro noi; la nostra sete di verità e di amore, benché mascherata dall’apparente buonismo, dagli addobbi natalizi, dal relativismo e dall’indifferenza contraddistinguono ogni nostra azione, ci fa gridare che abbiamo bisogno di acqua viva.
Non solo viviamo e camminiamo nel deserto, siamo noi stessi deserto. Siamo ancora il popolo che vaga nelle tenebre a cui è stata donata una grande luce, una luce che noi non vogliamo comprendere, che rifiutiamo, di cui ci scandalizziamo.
Quello che faccio in questo spazio, e che cerco di fare anche nella mia vita privata e professionale, è usare le parole, o almeno tentare di usarle al meglio. Tuttavia, oggi più che mai, mi rendo conto che sono a corto di parole, forse perché ne cerco sempre di nuove, di più adatte all’imperante bisogno di “politicamente corretto” di una società che, poi, se ne infischia di ciò che è “assolutamente corretto”, giusto, indiscutibile, vero. Vorrei imparare ad usare meno parole, anzi, vorrei usare la Parola, quella che non è mia, che non viene da me ma che, tuttavia, si degna di discendendere laddove c’è solo deserto. Vorrei imparare a scrivere, a parlare, a proclamare ciò che è degno di essere scritto, detto, proclamato e senza l’ansia di dover piacere a qualcuno. Magari diventassi anch’io trebbia acuminata che spiana e frulla le montagne e non personaggio in cerca d’autore o romanzo in cerca di editore!
Oggi dovremmo salire su un tetto per gridare che la nostra terra è deserta, arida, senz’acqua, che il nostro è un mondo che riempie i bambini di regali e smancerie ma li priva di ciò che è davvero loro necessario per vivere, nonché, molte volte, della vita stessa. Oggi più che mai dovremmo realizzare di essere poveri e che la nostra salvezza non può che venire dall’alto, come avvenne duemila anni fa e, da quel giorno, avviene ancora ogni minuto ed ogni secondo, per coloro che quella salvezza la accolgono nei loro cuori.
In questo istante, per questo Natale ormai alle porte, ho voglia di urlare, senza fare della letteratura, della dietrologia, della filosofia. Desidero soltanto urlare: “Maranathà”! Vieni, Signore Gesù! Io ti dico “vieni” perché so che a te non dispiace prendere dimora in chi è sterile, secco, confuso, smarrito, scartato, morto, spoglio, affamato, nudo, assetato, prigioniero, povero, umiliato, deserto. Io sono deserto, sono midbar senza te che sei davar, Parola. E nel mio deserto grido: ascolta la mia voce! Degnati ancora, come ti sei degnato a Betlemme, di abitare in una casa senza decoro, senza ricchezza e senza lusso, in un cuore stanco e smarrito, in un corpo e in un’anima che, se non ci sei tu a dar loro la vita, giaceranno morti per sempre.
In quel tempo, la parola di Dio scese su Giovanni, nel deserto. In questo tempo, la parola di Dio scende e scenderà su di me, su di noi, su tutti coloro che la vorranno, nel deserto. Perché viviamo nel deserto, perché siamo deserto. E, tuttavia, il deserto può rifiorire se, dall’alto, la pioggia lo irriga e gli ridona la vita.
Il Natale non è Natale se non è di Cristo. L’uomo non è uomo se non è di Cristo. La vita non è vita se non vissuta in Cristo.
Per questo grido ancora: “Maranathà”! Vieni, Signore Gesù!