Uno

Scrivere, più che parlare, obbliga a riflettere su ciò che si vuole dire. Verba volant, scripta manent. E’ proprio vero: le parole scritte sono come un impronta indelebile e possono segnare a vita sia le persone che le hanno proferite che quelle cui esse erano destinate.

Per molti anni ho pensato di non avere nulla di particolarmente degno di essere raccontato, e questo per un motivo ben preciso: sono cristiano e, per giunta, cattolico. So bene che ciò fa di me, agli occhi di molti, una persona banale, che non sa divertirsi e far divertire, uno che ha una vita – per così dire – poco emozionante.

In fondo, tanti possono esporre dieci, cento, mille verità, io ne ho solo una; per molti, esistono innumerevoli modi di amare ed essere amati, per me solo uno; varie persone sono devote a diversi dei, io solamente ad uno; decine di scrittori narreranno altrettante storie, io sempre la stessa, pur sapendo che essa può avere mille sfaccettature a seconda dei protagonisti che la vivono, ma ciò non toglie che si tratterà sempre della stessa storia, con lo stesso inizio, lo stesso percorso lineare e la stessa fine, ovviamente lieta, ed io non potrò fare a meno di dare speranza a chi leggerà la mia storia; innumerevoli voci starnazzano giorno e notte dai libri, dai giornali e dalle televisioni, cercando di convincerci che esistono molte strade per la felicità, tuttavia io ne conosco soltanto una.

Mi trovo all’inizio di un percorso che non so dove mi condurrà, eppure mi sento già da ora messo alla prova su quali saranno il mio ruolo, la mia parte, il mio contributo particolare, la mia lotta personale in questa vita: continuerò a fare scelte impopolari rischiando di trovarmi, come il profeta Elia, solo di fronte agli occhi giudicanti di un intero popolo e di innumerevoli falsi profeti di un falso dio? Metterò da parte il mio personale tornaconto, fatto di scarsi e insignificanti frammenti, in nome della pienezza dell’Uno?

E’ strano, ma, mentre mi pongo  domande che portano con sé il sapore acre del sacrificio, mi rendo conto di quanto la pienezza dell’Uno, di cui scrivevo or ora, non sia affatto annullamento, bensì completamento. Il termine sacrificio non indica rinuncia fine a se stessa, ma il divenire sacri. Siamo stati creati, infatti, per essere uno con l’Uno, eppure, senza quest’ultimo, non siamo che frazioni e decimali. So che non sono un matematico e rischio di scivolare in discorsi che farebbero venir fuori il mio odio per tale disciplina, per cui continuo con qualcosa che mi appartiene di più, ovvero la mia esperienza.

Ho capito, infatti, che non ascoltare le voci dei falsi profeti, rischiare di sembrare banali nel momento in cui si proclama con forza e con passione una Verità forse un po’ fuori moda, soprattutto quando questa ha la pretesa di essere l’unica, smetterla di offrire sacrifici su altari corruttibili e volubili come chi li ha costruiti non vuol dire perdere qualcosa, ma guadagnare se stessi, essere uno con l’Uno. Se si sperimenta tale condizione, non si è disposti per nulla al mondo a ritornare degli zero con la virgola, perché questo è ciò che si è senza l’Uno: degli spiccioli, dei centesimi che si svalutano di anno in anno, privi di rentabilità, di possibilità di garantire un guadagno e di vedere il proprio tasso di cambio rimanere fisso, invariato nonostante le speculazioni e le tempeste.

Complesso, trino, onnipotente, onnipresente ma pur sempre Uno, così come io con Lui: precario, potenzialmente instabile ma anche buono da investire, se resto ancorato al Valore universale, alla moneta che non si svaluta mai, se rimango uno nell’Uno.

 

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