La stanza in fondo al cuore

Vincent Van Gogh, "La camera ad Arles"
Vincent Van Gogh, “La camera ad Arles”

“Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”  (Matteo 6, 6)

C’è una stanza in fondo al cuore di ognuno di noi in cui per gli altri è impossibile entrare. Non vi entrano gli amici, non i genitori, né le mogli e neanche noi stessi. Ne possediamo la chiave ma, stranamente, non ne apriamo mai la porta se non per gettarvi tutto ciò che non ci piace avere davanti agli occhi, quasi fosse uno sgabuzzino in cui si accumula la roba vecchia di casa, il ciarpame, la mobilia inutilizzata e antiquata che resta a marcire laggiù per anni, forse per sempre.

Nella mia nuova casa, che è molto grande e bella, vi sono numerosi ambienti, spazi ampi, confortevoli e gradevoli a vedersi. Lì tutto è in bella vista: quadri, scaffali, fotografie, ricordi e raccolte di musica e libri. Poi, per entrare nella mia camera, si apre una porta scorrevole e si scendono tre gradini, quasi si accedesse a un rifugio segreto, nascosto, pressoché invisibile dall’esterno ma in cui è ancora possibile, se io lo voglio, essere invitati. In fondo alla mia camera, poi, vi sono un’altra porta ed altri tre gradini: si scende ancora in un minuscolo tugurio, minuscolo, buio, pieno di scatole e valigie accatastate, di borse e sacche per la biancheria sporca, di tutto ciò che io desidero non si veda. Ecco, quello è il posto più basso – in tutti i sensi – di tutta la casa. Non vi è zona meno abitabile e confortevole di quella né meno degna di essere mostrata.

Così, secondo me, sono io, siamo noi: fatti a strati, come i carciofi, duri all’esterno e poi sempre più morbidi e fragili man mano che gli strati superficiali vengono tolti. Per proteggere quella fragile intimità sviluppiamo sin da bambini una forma di pudore e di orgoglio che, negli anni, ci rende sempre più inaccessibili e misteriosi, tutti intenti a far sì che nessuno conosca veramente chi siamo e, soprattutto, ad evitare ad ogni costo di vederlo noi stessi.

La stanza in fondo al nostro cuore, pur essendo piccola, buia, umida e poco curata, ha, in realtà, un enorme potere magico, essendo in grado di influenzare la tenuta della struttura dell’intera casa, che su di essa si poggia, proprio come il mio appartamento poggia sullo sgabuzzino della mia camera. Vi entra poca luce perché essa è dotata solamente di due feritoie attraverso cui l’osservatore più attento può persino arrivare a dare un’occhiata all’interno: i nostri occhi. In più, nonostante noi lottiamo con tutte le nostre forze per far finta che quella camera scura non esista ed evitiamo persino di posarvi lo sguardo, basta pochissimo perché la sua irresistibile forza di attrazione ci risucchi e ci imprigioni, anche solo per brevi momenti: una canzone, delle parole dette in un modo particolare, dei gesti, un film. Avviene, allora, che la razionalità non abbia più il controllo sulle nostre azioni e domini il caos, cosicché iniziamo una strenua resistenza che ci rende apparentemente folli agli occhi degli altri. Recitiamo una parte che risulta, tuttavia, poco credibile ed esageratamente forzata; cerchiamo di coprire con battute e modi di dire le frasi, che, senza accorgersene, la nostra bocca starebbe per pronunciare se quel poco di raziocinio ancora funzionante non le bloccasse mentre fuoriescono dal subconscio in cui sono chiuse; aaddirittura, diciamo il contrario di ciò che vorremmo, perché non si capisca quello che stiamo provando.

Mi capita spesso che i rapporti più solidi e duraturi entrino in crisi se io mi avvicino troppo alla stanza in fondo al cuore di qualcuno e se questi si avvicina troppo alla mia. Sarà l’istinto di sopravvivenza; sarà il terrore di pensare che, se gli altri scoprissero il ciarpame che è nascosto nell’angolo più estremo della nostra anima, non ci amerebbero; sarà che siamo troppo orgogliosi per ammettere che siamo feriti, malati, bisognosi e non accettiamo, non ammettiamo di essere fallibili, imperfetti, umani.

Da un po’ di tempo sto cercando di non fuggire più e di aprire quella stanza, per condurvi l’unica persona che possa capirci qualcosa, che sappia spiegarmi come mettervi un po’ d’ordine e che, effettivamente, desideri rimanerci per sempre. Mi è stato fatto capire, infatti, che né gli amici, né gli psicologi né la famiglia possono comprendere il cuore di un uomo, giacché esso è ingannevole più di ogni cosa, segreto, sacro e solo a Dio è dato capirlo. Di conseguenza, ho tirato fuori la vecchia e arrugginita chiave che tenevo nel taschino della giacca e l’ho consegnata a Qualcun altro, anche se ammetto che è arduo, per me, capire come mai quella persona voglia addentrarsi nel mio tugurio, preferendolo ad ampie, confortevoli e bellissime camere dotate di ogni lusso e comodità. Di quell’angolo nascosto, io non riesco a sopportare il tanfo, devo tapparmi il naso ogni volta che mi ci avvicino; non riesco a tollerare la vista di tutte le cose che in esso sono contenute e aborro il doverle mostrare a chi, invece, le vuole per sé.

Tuttavia, questa è la verità: non ci è dato conoscere davvero né il nostro cuore né quello delle persone che amiamo, giacché non l’abbiamo creato noi; è inutile sforzarci di capire e credere che possiamo risolvere i nostri problemi e quelli altrui soltanto ascoltando, parlando, aiutando. Non siamo, purtroppo, i terapeuti di nessuno, tantomeno quelli della nostra anima. Come può, infatti, un cieco essere guida di un altro cieco?

Così, quello che io faccio è, un tantino per volta, aprire quella stanza a Dio, rimanervi per un po’ con lui, anche se malvolentieri, sforzandomi sino all’inverosimile, senza tentare oltremodo di cambiare ciò che non posso cambiare, bensì riconoscendo a lui il potere di farlo. Ciò non mi ha sicuramente reso diverso dalla persona che sono, tuttavia mi ha dato la consapevolezza che il tugurio è lì, davanti ai miei occhi, e non è più possibile ignorarlo. Anzi, come esso è presente in me, lo è anche in ogni altro essere umano, basta soltanto fermarsi a guardare per riconoscere tante dinamiche comuni a tutti. Ho compreso, poi, che è necessario e doveroso tenere segreta, riservare quella parte della nostra anima soltanto a Dio, il quale, stranamente, ne è geloso e la vuole tutta per sé, il che non significa infedeltà nei confronti dell’uomo, bensì rispetto per i propri e gli altrui limiti. Si è più amici se ci si ritira a pregare per un nostro caro insieme a Colui che sa come entrare nella sua anima e davvero può confortarlo, piuttosto che se si pretende di conoscere le parole giuste per cambiare la sua tristezza in gioia, quasi egli fosse un oggetto e non un figlio di Dio.

Vorrei dedicare queste “poche” e sicuramente non molto utili parole a coloro che mi sono più cari, con la consapevolezza che io non posso essere loro vicino come meriterebbero ma con la certezza che, rimanendo unito a Dio, potrò entrare anch’io insieme a lui dove soltanto a lui è dato entrare, e cioè nel più profondo della loro anima.

 

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