Il mio mutuo per un regno

'Primavera vicino alla casa di campagna", di  Wojciech Niemiec
“Primavera vicino alla casa di campagna”, di Wojciech Niemiec

Seguito di “Il mio regno per un mutuo”

Mi sono buttato! Ho lasciato le mie tranquille serate in compagnia di Premium Crime e delle sue appassionanti serie; ho gettato via le mie zuppe surgelate e il mio monolocale da single; ho nuovamente imbustato, impacchettato e trasportato la mia vita in un altro angolo della città; ho abbandonato le mie piccole, insignificanti – ma rassicuranti – certezze, quasi fossi Abramo che lascia Ur dei Caldei per recarsi, su ordine di Dio, in una nuova, sconosciuta terra che gli è stata promessa.

Non so come si sia sentito Abramo, in quel momento… Di certo, lui non avrà dovuto affrontare quell’inferno in terra che è l’Ikea. Senz’altro – glielo concedo – le sue difficoltà saranno state ben maggiori: partire con cammelli, pecore, una moglie sterile e centinaia di persone al seguito non sarà stata un’impresa facile. Tuttavia, devo ammettere che passare dalla totale, indiscussa autonomia alla divisione dei piatti, delle pentole, degli spazi, al trasporto degli armadi ed al cambiamento radicale delle proprie abitudini non è una passeggiata. Non per me, almeno.

Ora vivo nel cuore della capitale del mio Paese e della cristianità, nel luogo in cui Giulio Cesare è stato assassinato da Bruto e in cui migliaia, milioni di persone ogni anno si ritrovano per guardarsi intorno con la bocca aperta. A dieci minuti a piedi da casa mia – il più delle volte anche meno – mille tesori inestimabili non attendono altro che di essere ammirati: Piazza Navona, il Pantheon, San Pietro, il Colosseo. Non desidero, tuttavia, soffermarmi sugli aspetti di ordine pratico o logistico, non ho molto tempo per scrivere in questi giorni. In fondo, poi, il quartiere in cui abitavo prima mi piaceva tanto e non è certo per motivi di comodità né per ragioni economiche che ho scelto di traslocare.

No, ho scelto di cambiare non per poter avere a pochi passi da me il Colosseo, bensì dei tesori molto più grandi e preziosi, degli amici che sono una famiglia.

Devo ammettere che non è facile rendersi conto che la nostra solitudine non è una semplice condizione in cui gli altri ci hanno messo. Spesso, infatti, capita che la solitudine non sia altro che un vaccino antinfluenzale contro le ferite cui si può andare incontro se si vive, se si ama, se ci si lascia amare; è come un guscio protetto in cui ci si rifugia e si soffre ma, allo stesso tempo, ci si compiace, si gode della propria miseria. Questo non è sempre da imputare alla nostra malafede. A volte accade e basta, magari per colpa della vita o di certi comportamenti, atteggiamenti che non sappiamo neanche spiegare e comprendere ma che ci portano a scappare via, a fuggire qualunque tipo di relazione, se questa minaccia un equilibrio interiore che tanto fatichiamo a tenere in piedi. Allora, le nostre case diventano un’estensione di quel guscio, fatto per mantenere gli altri fuori, a distanza di sicurezza… Tanto non si sa mai, fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. In più, guardati dai nemici ma molto più dagli amici!

Altre volte, invece, sono meccanismi diversi che si mettono in funzione: abbiamo questa strana idea per cui pensiamo che amare qualcuno (mogli, figli, fratelli, amici) voglia dire riuscire a mantenere sempre alto il livello della relazione con loro, temendo ed evitando i confronti, gli scontri, la condivisione delle cose che riteniamo essere troppo poco nobili da conoscere e far conoscere, in primis il nostro vero carattere e la nostra natura non sempre mite ed arrendevole. Percepiamo lo stato ideale della vita come le vacanze che aspettiamo per un anno intero e che poi, una volta arrivate, passano e ci lasciano l’amaro in bocca; oppure come la chiacchierata con l’amico del cuore, anch’essa tanto attesa, ma che ci delude perché né noi né i nostri amici abbiamo saputo, in quell’occasione, dire o ascoltare ciò che avremmo desiderato; o, ancora, come l’appuntamento con la ragazza che ci aveva colpito, quell’uscita al cinema o a cena che avevamo pianificato nei dettagli ma che, alla fine, si è risolta in un totale fallimento. Tutto, quindi, è un totale alternarsi di aspettative e ritorni alla realtà, sorprese e delusioni, sogni mancati ed altri che si realizzano. Eppure, di fronte a questo altalenarsi di sensazioni, sentimenti, imprevisti e sfide, l’istinto che domina in me è quello della fuga: ogni fibra del mio corpo mi spinge ad andare via, a cercare un rifugio, a scappare dove nessuno mi possa raggiungere e dove io possa essere finalmente me stesso. Lì, io costruisco intorno a me un altro mondo, diverso, perfetto, in cui io sono il protagonista e gli altri le comparse, io chi muove i fili e il mio prossimo una marionetta nelle mie mani. Quanto egoismo!

Quello su cui ho avuto modo di riflettere, da quando, qualche giorno fa, è iniziata la mia nuova avventura insieme ad altre persone e in un nuovo appartamento, è che non sono stato chiamato tanto ad avere una casa, quanto ad esserlo. Sebbene mi sembri assurdo per una persona dalle mille paturnie e dalle mille manie, come io sono, è proprio quello che sento. So anche che è giusto che chi mi ama mi veda nel modo in cui io realmente sono, nel bene e nel male, e questo non sarà possibile finché continuerò ad iniettarmi degli anticorpi contro chi mi vuole bene, finché casa mia – ed io stesso con lei – sarà soltanto il muro di separazione che mi consente di tenere fuori chi costituisce una minaccia per il mio fragile e incostante umore (cioè ogni singola creatura su questa terra). Non posso fare altro che lasciare, dunque, che si vedano le mie sconfitte, oltre alle mie vittorie, le mie ferite, oltre alle mie certezze, le mie incapacità, oltre ai miei talenti. Ed anche nei difetti chiederò di riconoscere l’amore, anche nella quotidianità, nella noia e nelle situazioni ordinarie imparerò a vedere la mano di Dio, poiché è nelle piccole cose che si è chiamati ad essere santi, a fare la differenza, e questo il nostro nemico lo sa bene, come aveva espresso benissimo C. S. Lewis nel suo meraviglioso “Le lettere di Berlicche”. Non si può essere fedeli, amici, sposi, fratelli nel molto se non lo si è anche e soprattutto nel poco.

Ecco, dunque, ciò che vorrei si realizzasse nella mia vita, ciò che io vorrei diventare:

 

“A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra” (Marco 4, 30-32)

 

Non posso, ovviamente, affermare che si sia compiuta in me questa parola, anzi! Semplicemente, ho capito che non vale la pena rinunciare al proprio regno per un “mutuo” (e con mutuo intendo le nostre piccole e misere certezze, le nostre tane, i nostri muri divisori in senso figurato, non certo il desiderio legittimo di avere un luogo accogliente in cui vivere). Semmai il contrario: il mio mutuo per un Regno!

 

Il mio regno per un mutuo

 

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