Intervista di Gerardo Ferrara a padre Bedros Marashli Haddad, sacerdote armeno cattolico
I corridoi, gli atri, le scale e i portici delle Università Pontificie di Roma sono luoghi strani, anzi, più “non luoghi”, per usare un’espressione nota ai sociologi e agli antropologi. I “non luoghi”, infatti, possono essere stazioni, aeroporti, aree di servizio, ecc., e sono posti in cui il tempo pare fermarsi, in cui s’incontrano persone che non s’incontrerebbero di solito, si parlano e si ascoltano lingue sconosciute, si è come alienati rispetto alla realtà circostante, dove invece il tempo e lo spazio continuano a esistere nel modo in cui li conosciamo.

Le Università Pontificie di Roma sono appunto questo: aree di scambio fuori dal tempo e dallo spazio, fuori da Roma, per così dire, e dal suo traffico, dalle sue urla e dalle sue bellezze così affollate, sebbene si trovino nel cuore della città. Qui esiste un altro tempo e qui convergono nazioni, lingue, culture e storie da ogni angolo del mondo.
Nei tredici anni in questi atri, portici e corridoi ho avuto il privilegio di incrociare tanti sguardi, tante storie, tante emozioni.
La storia che voglio raccontare oggi, è quella di un amico il cui cammino si è incrociato con il mio tanti corridoi, tanti atri e tante Pontificie Università or sono.
Lavoravo, infatti, alla Pontificia Università Gregoriana, poco prima dello scoppio delle famose “primavere arabe”, che poi tanto primavere non sono state, e dell’inizio della terribile guerra in Siria che ne è seguita.
Un giorno mi si presenta in ufficio un ragazzo, insieme ad altri suoi colleghi seminaristi, per cui faceva da mediatore e delegato, dal sorriso e dall’allegria contagiosi. Mi colpiva quella sua allegria, come mi colpiva anche la sua disponibilità e gentilezza.
“Come ti chiami?”, gli dico.
“Elie”.
“Bel nome! Di dove sei?”.
“Siria! Però sono armeno”.
“Che vuol dire? Siriano o armeno?”.
“Tutti e due!”.
“Vabbè!”.
Tra una cosa e l’altra, abbiamo cominciato a parlare e ad essere amici. L’ho visto crescere nella sua formazione, divenire diacono e sacerdote. Lo incontravo e frequentavo – lui sempre sorridente – mentre la sua città, Aleppo, veniva assediata e distrutta e la sua famiglia cercava rifugio prima in Libano e poi in Germania. Me lo sono visto seduto, un giorno, da solo in un angolo buio a piangere per la liberazione di Aleppo. Sì, la liberazione, quando tutto il mondo diceva che la città era “ricaduta nelle mani del dittatore” e invece la sua popolazione rideva, festeggiava e si abbracciava per le strade perché era stata strappata dalle grinfie degli islamisti.
E oggi, dopo tanti anni, parlo con lui ancora, mentre si trova a Erevan, da sacerdote, a contemplare un’altra guerra, lontano dalla Siria ma sempre vicino al cuore di un cristianesimo attaccato, anche questa volta, da orde di miliziani jihadisti.
Grazie, caro Elie, o meglio, caro padre Bedros (il suo nome da monaco armeno cattolico), per avermi concesso del tempo per parlare con te.
Grazie a te! Sono contento di poter condividere la mia storia e di parlare di quello che sta succedendo nella mia patria, l’Armenia.

Sì, sappiamo che è scoppiata una nuova guerra per il controllo della piccola regione montuosa del Nagorno Karabakh, fra Armenia e Azerbaigian, uno dei tanti conflitti “congelati” e mai del tutto risolti tra le repubbliche ex sovietiche.
Sappiamo anche che, anche in questo caso, c’è di mezzo l’espansionismo della Turchia, che ormai tende a premere lungo tutti i suoi confini e che, nel Caucaso, è protettrice dell’Azerbaigian, una repubblica retta da un’oligarchia alla cui base c’è una famiglia, gli Alyiev, e che è a maggioranza musulmana sciita. L’Armenia, dal canto suo, gode della protezione della Russia. Un problema globale, quindi.
È così, purtroppo. Quando l’Unione Sovietica si è dissolta, molte delle repubbliche che la componevano hanno ottenuto l’indipendenza. Però i loro confini non rispecchiavano la composizione etnica del territorio. Gli armeni, infatti, storicamente non erano presenti solo nell’attuale Armenia, ma costituivano una cospicua minoranza, a volte anche una vera e propria maggioranza, in territori fuori dall’attuale Repubblica armena: in Armenia occidentale (Anatolia orientale), già occupata illegittimamente dai turchi; in Armenia meridionale, oggi Naxiçevan, che è una regione autonoma dell’Azerbaigian; in quella settentrionale, la Giavachezia, occupata dalla Georgia; in quella orientale, cioè l’attuale Repubblica dell’Artsakh, anche nota come Nagorno Karabakh, che faceva parte ufficialmente sempre dell’Azerbaigian ma che nel 1993, con l’aiuto dell’Armenia, ha ottenuto l’indipendenza; un’indipendenza, tuttavia, mai riconosciuta a livello internazionale.
Ricapitoliamo le tappe di questo conflitto. Dopo il genocidio degli armeni del 1915-16, nel 1918 l’Armenia dichiarò l’indipendenza. Da allora, purtroppo, non sono mancati i massacri, sia di azeri, da parte dei bolscevichi dell’Armata Rossa che miravano a occupare tutti i territori che avrebbero poi fatto parte dell’Unione Sovietica, sia ancora di armeni, quando l’Armata Rossa, che fino ad allora aveva protetto questi ultimi, si ritirò dal Caucaso e lasciò il territorio nuovamente nelle mani degli Ottomani, i quali riconquistarono l’Anatolia orientale e parte dell’Armenia, si insediarono nel vicino Azerbaigian e vi crearono l’Esercito dell’Islam, sotto la guida di Enver Pasha. Ovunque arrivarono gli ottomani e il locale Esercito dell’Islam, costituito prevalentemente da azeri, gli armeni furono sterminati: si parla di una cifra tra 50 mila e 100 mila armeni trucidati in quel periodo nel Caucaso e di circa 70 mila dopo il 1920 in Anatolia orientale, quando il fondatore della moderna Turchia, Kemal Atatürk, respinse il Trattato di Sèvres, che assegnava all’Armenia confini molto più ampi rispetto a quelli attuali, e occupò militarmente quella regione.
Sì, ed è doppiamente una tragedia, se consideriamo che, volendo studiare la storia del nostro popolo, non troviamo che abbia mai provocato stragi, né guerre, né genocidi… Aprite i libri e studiate la nostra storia: una storia fatta solo di cultura, musica, tradizione, fede, invenzioni, letteratura, eroi che hanno versato il loro sangue per la Chiesa, per la loro fede, per la loro nazione.
E poi arrivano i sovietici che, dal 1920 al 1991, furono padroni di tutto il Caucaso, controllando sia Armenia che Azerbaigian, e congelarono il conflitto con le metodologie portate avanti da Stalin: ateismo di Stato, spostamenti forzati di centinaia di migliaia di persone e assegnazione del tutto impropria e iniqua di territori a una Repubblica dell’Unione piuttosto che a un’altra. Ne abbiamo un esempio in Ucraina, con la Crimea, ma anche in Moldavia, con la Transnistria. Ma nessuna di queste soluzioni artefatte, e ancor meno la negazione di qualunque particolarità nazionale, riuscì a risolvere il problema, tanto che nel 1988, il soviet del Nagorno Karabakh votò per la riunificazione con l’Armenia, cosa non accettata né dal Politburo né tantomeno dagli azeri. E così, ancora nuovi massacri e pogrom ad alimentare il conflitto.
Sì, e pensa che il nostro popolo aveva già sofferto tantissimo. A parte i milioni di persone morte, abbiamo perso tanti territori in cui eravamo maggioranza, e soprattutto non abbiamo la sovranità sulla nostra montagna sacra, l’Ararat! Se si aprisse il cuore di un armeno, vi si troverebbe il Monte Ararat, il motore della sua vita, il raggio di fede nella vita donata agli uomini e ridonata a Noè sullo stesso monte Ararat.

Quel monte lo vediamo dal nostro Paese, ma si trova oggi in terra straniera, ma per noi, che lo contempliamo sognanti, rappresenta la nostra terra e la nostra patria, il patrimonio che i nostri antenati ci hanno lasciato in eredità e che noi, a nostra volta, dobbiamo trasmettere alle generazioni future.
Il presidente della Repubblica armena del Karabakh ha parlato di un vero e proprio scontro di civiltà, dichiarando: “Questa non è una guerra fra Karabakh e Azerbaijan, o Armenia contro Azerbaijan. È una guerra diretta della Turchia, in cui dei mercenari si schierano con 10 milioni di azeri contro 3 milioni di armeni”. E sembra che abbia ragione. In effetti, secondo AsiaNews, agenzia missionaria vicina all’opposizione siriana, la Turchia starebbe reclutando mercenari islamisti in Siria per mandarli a combattere all’estero, come del resto ha fatto in Libia, senza esporsi direttamente.
Proprio così: L’Azerbaigian vuole riconquistare una terra nella quale vivono da millenni i cristiani armeni, per i quali è parte della loro patria. Noi armeni, dopo il genocidio, avevamo avuto fiducia nella comunità internazionale. Speravamo che questa potesse un giorno darci il diritto di vivere in pace nella nostra terra, ma ormai abbiamo capito che la nostra terra va difesa con la forza della fede e delle armi, perché, per vivere liberamente, da cristiani, ci vogliono cuori pronti a sacrificarsi per la patria, per la Chiesa e per il popolo che vive in quella terra. Adesso, in particolare, quello spirito di sacrificio è più importante che mai, visto che la Turchia, come dicevi, sta sostenendo l’Azerbaijan con l’invio degli stessi jihadisti che hanno distrutto la Siria alle frontiere con l’Armenia: vogliono che si ripeta quello che hanno fatto 105 anni fa con il genocidio!
Le ultime notizie sono, tra l’altro, allarmanti: si parla di droni turchi – il dibattito nella stampa internazionale è se siano solo di fabbricazione turca oppure, come più probabile, manovrati anche da esperti turchi – sul territorio del Nagorno Karabakh che prendono di mira carri armati e mezzi corazzati dell’esercito di quella Repubblica; e si parla anche di un F16 turco che ha violato lo spazio aereo armeno abbattendo un aereo dell’Armenia.
Certo, ma stavolta la popolazione armena del Nagorno Karabakh è pronta a battersi con le unghie e con i denti pur di non farsi annettere dagli azeri. E tutti gli armeni, non solo in Armenia ma da tutti i Paesi della diaspora, sono pronti a tornare per dare la vita per la patria. I nostri nonni e bisnonni sono morti affinché noi potessimo vivere liberi nella nostra fede cristiana e nelle nostre tradizioni, liberi da ogni oppressione o persecuzione, e noi non siamo più disposti a perdere quella libertà: difenderemo le chiese, i monasteri, la nostra cultura, la nostra lingua e la nostra gente ad ogni costo. Lo vedo a Erevan ma so che è così in tutti i villaggi e le città del Paese: tanti volontari, giovani e vecchi, medici, religiosi, professionisti di ogni età e categoria stanno accorrendo ai nostri confini per dare supporto ai soldati armeni; le famiglie stanno raccogliendo ogni tipo di aiuto per mandare il tutto alle frontiere e nei villaggi che hanno subito bombardamenti. Tutto il popolo armeno è diventato un solo cuore e una sola mano per contribuire a difendere e salvare la popolazione che subisce i bombardamenti.
Tutti noi sappiamo che, se non vi sarà altra soluzione che la morte, la accetteremo come una salvezza perché siamo un popolo che adora la Croce del Signore, un popolo fedele alla Croce e chiamato a dare la vita come ha fatto nostro Signore Gesù Cristo, affinché dalla nostra morte possa rinascere un nuovo popolo ancor più fedele alla patria, alla fede e alla Chiesa.
Questa parola, Armenia, così come le parole “patria”, “fede”, “sacrificio”, ricorre spesso nei tuoi discorsi, anzi, nei discorsi di tutti gli armeni. Tuttavia, ho udito amici siriani – e tu sei anche siriano – ripeterla spesso con nostalgia e con gli occhi che brillano, quasi come se la vostra patria, la vostra casa, la vostra fede fossero qualcosa a cui tentate disperatamente di rimanere aggrappati da quanto, da 100 anni? Quant’è che il tuo popolo è perseguitato?
Magari fossero solo 100 anni! È da secoli, anzi, da più di un millennio che il mio popolo sta subendo persecuzioni e guerre, sin dal momento in cui ha accettato il Cristianesimo come religione, ed è stato il primo al mondo ad accettarla come religione di Stato! Prima ci hanno perseguitato i persiani, poi altre nazioni e tribù, fino all’arrivo degli ottomani che, con il loro impero, si sono sviluppati inglobando tutti i territori circostanti. E da allora siamo vissuti con la minaccia costante di veder eliminato tutto ciò che si definisce armeno, anche se noi stessi, come popolo, abbiamo contribuito grandemente allo sviluppo economico e culturale dell’Impero ottomano.
Però non avete avuto più un vostro Stato, mentre un tempo ne avevate uno, ed era bello grande, come tu stesso dicevi poco fa!

Eccome! L’Impero armeno arrivava fino ai confini dell’Egitto, della Grecia e della Persia nel 140 a.C . Era un impero ricco di cultura, una cultura condivisa con i popoli vicini, l’esatto contrario dell’Impero ottomano, che invadeva, conquistava e saccheggiava ogni territorio in cui si presentava, macchiandosi continuamente di sangue, nel Medio Oriente come nel Caucaso o in Europa.
Fino al grande genocidio, che voi chiamate Mezd Yeghern…
Sì, nell’anno 1915… E tutti hanno potuto vedere le immagini e ascoltare le testimonianze circa lo sterminio degli Armeni nella loro terra: un milione e mezzo almeno di morti!
E oggi sei nella tua patria a servire il tuo popolo.
Sì, adesso mi trovo a Erevan, la capitale dell’Armenia, che l’anno scorso ha celebrato i 2800 anni dalla sua fondazione. La settimana scorsa, invece, abbiamo festeggiato il ventinovesimo anniversario dell’indipendenza dell’Armenia dall’Unione Sovietica.
Come vivi tutto questo da armeno, da cristiano e da sacerdote?
Servendo il popolo, appunto. Stando con la mia gente. Ora sono vicerettore del Seminario Vescovile di Erevan, nella Chiesa armena cattolica in comunione con Roma.
Vedi una differenza, una situazione critica della Chiesa cattolica in Armenia, rispetto alla maggioritaria Chiesa apostolica?
No, nella nostra Chiesa e nel clero non mettiamo l’accento sulla differenza tra armeni apostolici e cattolici: condividiamo la stessa storia, la stessa cultura, la stessa lingua e la medesima liturgia. Noi cattolici in Armenia, certo, siamo una minoranza, diffusa specialmente nei villaggi e città del nord e nord est dell’Armenia e un po’ in Artsakh. Tuttavia, siamo tutti pronti a servire il popolo di Dio allo stesso modo, senza differenze.

Una cosa importante di te è che hai vissuto tra due identità, due conflitti, due persecuzioni, in un Oriente in cui i cristiani non sembrano trovare mai pace. E questi conflitti tu e la tua famiglia li portate nel sangue, nell’anima, nel cuore.
Proprio così. Come dicevi, infatti, sono siriano di nazionalità perché sono nato ad Aleppo, ma di origine armena. I miei bisnonni, infatti, arrivarono ad Aleppo nel 1800. Ho vissuto un’infanzia piena di emozioni, di sogni sulla mia patria, che è l’Armenia: sognavo di andarci a vivere per sempre. Anche a scuola, una scuola armena (in Siria e in Iraq, infatti, c’erano, prima della guerra, tantissimi armeni che vivevano in pace) ci davano spesso dei compiti per aiutarci a immaginare la nostra patria e tutti ci figuravamo il monte Ararat, la valle che gli sta intorno, i vigneti, le città, i villaggi… Come ogni armeno, quindi, quella montagna, che per noi è sacra, è divenuta una parte essenziale di me.
Quindi non avevi problemi a vivere in Siria con la tua identità di armeno e la tua fede di cristiano…
Assolutamente no! Anzi, a quattordici anni sono entrato al seminario minore, perché già sentivo che il Signore mi stava chiamando a servirlo nella sua Chiesa. Sono rimasto ad Aleppo fino alla fine del liceo. Nel 2011, poi, sono andato in Libano per entrare al nostro seminario maggiore armeno-cattolico di Bzommar, nella zona chiamata Monte Libano, e lì sono rimasto un anno. Dopo, all’inizio di ottobre 2012, sono volato a Roma per proseguire i miei studi filosofici e teologici presso la Pontificia Università Gregoriana, dove ci siamo incontrati. Sono stati sei anni molto belli con i miei fratelli e amici del Pontificio Collegio Armeno di Roma.
E finalmente nel 2019 sei diventato sacerdote!
Sì, il 14 dicembre 2019 sono stato ordinato prete presso l’istituto del Clero Patriarcale di Bzommar. La prima missione che mi è stata affidata è stata quella di recarmi a servire come sacerdote il nostro popolo in Armenia.
Parlaci della tua esperienza sulla guerra in Siria: com’è iniziata? Cosa ricordi?
Ogni volta che penso alla guerra in Siria mi viene in mente che vivevamo in pace, che stavamo bene economicamente: la Siria aveva standard di vita elevati, era un Paese che non aveva alcun debito, tutti avevano diritto all’istruzione, alla sanità. Il Paese era autosufficiente fino al 2011, quando il progetto mondialista delle cosiddette “primavere arabe” portò i Paesi arabi alla rivolta contro le dittature dei loro governi e presidenti.
Anche in Siria, in nome certo della libertà ma spinti e animati da altri che, invece, quella libertà non la favorivano certo, i giovani hanno iniziato di ribellarsi contro il presidente “dittatore”. In pochi mesi queste ribellioni e manifestazioni sono state scientemente organizzate e trasformate in guerriglia, con un notevole afflusso di armi e di jihadisti che hanno iniziato a bombardare e uccidere chiunque non si unisse a loro.
E così siete dovuti scappare da Aleppo.
Sì, io per primo e poi i miei genitori e mio fratello.

Infatti, nel 2011 io dovevo già trasferirmi a Beirut e da lì a Roma per l’università. Tuttavia, le strade per Beirut erano chiuse dai guerriglieri islamisti e, per arrivare in Libano, ero costretto a prendere l’aereo e passare per una zona conquistata da gruppi armati di jihadisti che uccidevano sistematicamente i ragazzi della mia età pensando che facessero parte dell’esercito regolare siriano, contro cui combattevano. Infatti, io avevo 18 anni, proprio l’età del servizio militare, dal quale ero stato esentato in quanto seminarista (in Siria i religiosi cristiani non devono prestare servizio militare). Questo, però, per i guerriglieri non aveva importanza. Si limitavano a controllare la carta d’identità: hai l’età per il militare? Sei morto!
Ricordo che avevamo preso un taxi per l’aeroporto e siamo arrivati nella zona controllata dai jihadisti. E lì è avvenuto un miracolo: ci hanno fermato per controllare la macchina, ma dietro di noi ce n’era un’altra, piena zeppa di armi che evidentemente erano per loro, perché quella macchina sembrava dovessero farla passare subito. Quindi hanno detto anche a noi, che ci trovavamo davanti, di proseguire e non fermarci.
Hai avuto paura? Che cosa hai pensato?
Beh, in quel momento mi ripetevo nel mio cuore che, se Dio avesse voluto qualcosa da me, certamente mi avrebbe fatto passare per arrivare all’aeroporto. Ed è proprio così che è andata!
E i tuoi genitori sono rimasti ad Aleppo?
Per tre anni, poi sono fuggiti anche loro: tre anni di terrore, ma anche di miracoli. Si sono decisi a scappare dopo che hanno bombardato la nostra casa. Dopo una lunga serie di traversie – e di interventi miracolosi di Dio – sono finalmente arrivati in Libano e da lì, dopo qualche mese, hanno potuto ottenere asilo in Europa.
Aleppo, una città che albergava una delle più grandi comunità di cristiani del Medio Oriente e che pure aveva dato rifugio a tanti armeni scampati al genocidio turco. Che cosa rimane della tua città?

Nel 2017 sono ritornato a trovare la mia famiglia per la prima volta, quelli che sono rimasti là.

Ho visto un’altra Aleppo, così diversa da quella in cui ero cresciuto: distrutta, bruciata e in macerie; ho visto gente annientata, che ha subito perdite immani, sia da un punto di vista materiale che, soprattutto, umano. Quanti miei amici sono scappati per non fare il servizio militare e morire per niente! Quanti miei amici sono stati uccisi o mutilati sotto le bombe, massacrati, perseguitati, rapiti! Quante famiglie cristiane continuano a subire un martirio quotidiano per colpa della corruzione dopo la guerra! C’è, tuttavia, una cosa che mi ha colpito di più: tornare a casa, a casa mia, dopo che questa era stata bombardata. Dentro era un macello: polvere ovunque, sabbia, finestre in frantumi, porte divelte o spalancate, quadri caduti per terra e vetri infranti… Una cosa sola era rimasta in piedi, ritta come un albero sulla cima di una montagna: l’icona della Santissima Madre di Dio con Gesù bambino tra le braccia. E in quel momento mi sono commosso, perché ho capito che la Santa Vergine Maria aveva protetto la nostra casa e i ricordi che vi si trovavano, anche se molto era perduto. Noi, però, eravamo sopravvissuti e stavamo bene.

Qual è la situazione dei cristiani in Siria oggi?
La situazione dei Cristiani non è affatto buona, perché siamo diventati una sparuta minoranza che lotta per la sopravvivenza culturale, religiosa, ed economica. È molto, molto difficile. Tante persone mi chiedono: a chi lasceremo le nostre case, le chiese, tutto ciò che abbiamo costruito? È tutta la nostra vita! Tutta la nostra vita!
E io non posso fare nient’altro che servirli come posso, e pregare per loro, aiutandoli con tutto me stesso a non perdere la speranza. Perché, dopotutto, la nostra speranza è in Dio.
Mi torna spesso in mente una frase di Eliseo l’Armeno, da noi chiamato Yeghishe Vardapet, un autore e storico armeno del quinto secolo. Yeghishe, parlando della morte e degli armeni, ha usato quest’espressione che mi dà sempre fiducia, speranza e fede, perché è un po’ il leitmotiv del mio popolo, un popolo che si ostina a vivere e continuerà a farlo sempre, sempre, difendendo la propria terra, la propria Chiesa e la propria nazione:
Una morte ignota è una morte; una morte conosciuta è eternità
Intervista di Gerardo Ferrara
Scrittore ed esperto di Medio Oriente