TRA GUERRA E PACE

Eugenio Corti: epopea di uno scrittore, di un uomo, di un cristiano

Di Gerardo Ferrara

Un’epopèa (ant. epopèia) [dal gr. ἐποποιΐα, comp. di ἔπος (v. epos) e ποιέω «fare»] è una narrazione poetica di gesta eroiche, cioè un poema epico o un ciclo di poemi, che raccoglie in unità organica racconti leggendarî per lo più elaborati dalla tradizione.

Così è stata la vita di Eugenio Corti, un grande uomo e un grande scrittore: per me un padre, un maestro, un amico con cui parlo e la cui intercessione e protezione invoco quotidianamente contro quelle stesse tentazioni che egli stesso ha dovuto affrontare, contro le delusioni che ha dovuto patire e contro le sfide che si è trovato a fronteggiare. È davvero arduo per me scrivere di qualcuno che così tanto ha influito – e continua a farlo ogni giorno di più – sulla mia vita e sulla mia vocazione di uomo, di cristiano e di narratore.

Per tale ragione, ho scelto di raccontare la sua vita attraverso le sue stesse parole, iniziando da quello che è considerato il suo testamento spirituale, una lettera scritta alla moglie Vanda nel 1993:

Vanda mia,

Consentimi di scriverti anzitutto in merito alla tua poesia “Andando”, che mi ha molto rattristato. Per due volte parli di te stessa come di una “che non ha dato frutti”: ma non è vero, la realtà non è questa. L’allusione alla mancanza di figli della carne è evidente; anch’io un tempo li desideravo, ma noi due non eravamo chiamati a questo: la nostra unione, nei disegni di Dio, non aveva questo fine; anzi se avessimo avuto dei figli, il disegno che Dio aveva su di noi, non si sarebbe potuto realizzare.,

I nostri veri figli sono i nostri libri, che non vengono solo da me, ma anche da te. Essi si reggono interiormente — come sai — su due colonne: la verità e la bellezza, e senza di te al mio fianco e sotto i miei occhi tutti i giorni, la loro bellezza non ci sarebbe stata, o sarebbe stata enormemente monca, cioè appunto, in conclusione, non ci sarebbe stata.

Perciò la tua vita non è stata qualcosa di spento, ma al contrario, di luminoso: è stata una straordinaria avventura di donna. Perché quei libri — anche questo tu lo sai — sono riusciti in pieno, e hanno un valore straordinario. Non tutti sono in grado di capirlo oggi, dato che hanno contro la falsa cultura dominante. Ma neppure di questo dobbiamo dispiacerci: anzi io prego sempre Dio che — mentre sono in vita — non mi conceda la soddisfazione del grande successo, perché a tale riguardo sono debole, e cederei con facilità alla tentazione dell’orgoglio.

Se noi continueremo a cercare il Regno di Dio, tutto ciò che ci occorre, ci sarà dato con sufficiente abbondanza, com’è accaduto finora.

Dalla scuola alla guerra

Eugenio Corti nasce a Besana in Brianza il 21 gennaio 1921, primo di dieci figli. Suo padre è un industriale del settore tessile che si è fatto da sé iniziando a lavorare come garzone ed è riuscito poi ad acquistare la fabbrica in cui lavorava, la ditta Nava di Besana, ampliandola e aprendo nuove fabbriche.

Studia a Milano, presso il collegio San Carlo, dove frequenta il ginnasio e il liceo classico. I genitori avevano stabilito di fargli ottenere il diploma di ragioniere perché potesse divenire un valido aiuto in ditta, ma il rettore del collegio, monsignor Cattaneo, si oppone energicamente, intuendo che per il giovane Eugenio la strada del liceo classico è la più adatta.

Nel 1940 gli studi s’interrompono improvvisamente ed Eugenio non può sostenere gli esami di maturità, che saranno superati d’ufficio: l’Italia entra in guerra. Il giovane Corti può iscriversi comunque all’Università Cattolica, riuscendo a frequentare solamente il primo anno di Giurisprudenza, dopodiché viene chiamato alle armi.

L’addestramento come sottufficiale inizia nel come 1941 e dura un anno, alla fine del quale Eugenio Corti diviene sottotenente.  Nel frattempo, inoltra la richiesta di essere destinato al fronte russo:

Avevo chiesto di essere destinato a quel fronte per farmi un’idea di prima mano dei risultati del gigantesco tentativo di costruire un mondo nuovo, completamente svincolato da Dio, anzi, contro Dio, operato dai comunisti. Volevo assolutamente conoscere la realtà del comunismo; per questo pregavo Dio di non farmi perdere quell’esperienza, che ritenevo sarebbe stata per me fondamentale: in questo non sbagliavo.

Corti, alla fine, la spunta e parte per la Russia.

Ho raggiunto il fronte agli inizi del giugno 1942. Per un mese il fronte non si è mosso, poi c’è stata la nostra grande avanzata dal Donez al Don, cui hanno fatto seguito i mesi di stasi. Il 16 dicembre ha avuto inizio l’offensiva russa sul Don e il 19 la nostra ritirata: quella sera stessa il mio corpo d’armata si è trovato chiuso in una sacca. Ci era arrivato l’ordine di lasciare il Don senza che fosse stato distribuito il carburante per gli automezzi; abbiamo, perciò, dovuto abbandonare tutto il materiale, senza poter salvare un solo cannone, né le tende e neppure i viveri.

Questi sono i giorni più drammatici della vita di Corti: i ventotto giorni della ritirata, magistralmente narrati ne I più non ritornano.

La notte di Natale del 1942 fa un voto a Maria: se fosse stato risparmiato, avrebbe dedicato la sua vita a lavorare per il Regno di Dio, a farsi egli stesso strumento di quel Regno con le doti che gli erano state concesse:

se mi fossi salvato, avrei spesa tutta la mia vita in funzione di quel versetto del Padre nostro che recita: Venga il tuo Regno.

Solo la sera del 16 gennaio pochi superstiti riescono a uscire dall’accerchiamento russo. Dell’Armata Italiana In Russia (ARMIR), che contava 229.000 uomini, i morti in battaglia e in prigionia saranno complessivamente 74.800; su circa 55.000 soldati catturati, ne torneranno soltanto 10.000. Per quanto riguarda poi il settore di Corti, di circa 30.000 italiani nel Trentacinquesimo corpo d’armata accerchiati sul Don, usciranno dalla sacca solamente in 4.000, di cui 3.000 congelati o gravemente feriti.

Dopo il ritorno a casa e la difficile ripresa, nel luglio 1943 rientra in caserma a Bolzano, per poi essere trasferito a Nettunia, da cui, dopo l’8 settembre, si dirige verso il sud a piedi, in compagnia dell’amico Antonio Moroni, per riunirsi all’esercito regolare. Queste vicende, e tutte quelle riguardanti la guerra di liberazione, sono narrate ne Gli ultimi soldati del re. Dopo un periodo nei campi di riordinamento, Corti entra volontario nei reparti nati per affiancare gli Alleati nella liberazione dell’Italia, per salvare la patria:

La patria non deve essere confusa con i monumenti dei paesi o con il libro di storia: è l’eredita lasciataci dai padri, da nostro padre. Sono le persone simili a noi: i nostri familiari, gli amici, i vicini, quelli che ragionano come noi; è la casa in cui abitiamo (che sempre, quando si è lontani, torna alla mente), sono le cose belle che abbiamo intorno. La patria è il nostro modo di vivere, diverso da quello di tutti gli altri popoli.

La pace: prime opere e guerra al comunismo

Ritornato alla vita borghese, il giovane Corti ricomincia, per accontentare i suoi, a studiare svogliatamente e si laurea in giurisprudenza nel 1947. Ormai, l’orrore vissuto e l’incertezza per il domani hanno cambiato per sempre il suo approccio alla realtà che lo circonda. È un reduce, e come tale fatica a reinserirsi nella vita ordinaria, nei problemi ordinari dei giovani della sua età. Nello stesso anno pubblica con Garzanti I più non ritornano, il suo primo libro, sulla ritirata di Russia, da lui così dolorosamente vissuta. Sempre nel ‘47, in occasione dell’ultimo esame sostenuto all’università, conosce Vanda di Marsciano, colei che poi diverrà sua moglie (nel 1951).

Nel 1951 Corti comincia a lavorare nell’industria paterna: non ama quel lavoro, ma continua a svolgerlo per una decina d’anni.

In tutte le sue cronache di guerra, importantissima è l’analisi di Corti circa il modo di combattere degli italiani, assai individualisti, istintivamente scompaginati e soggetti alla ribellione all’autorità: il comportamento degli italiani in guerra rappresenta perfettamente il loro modo di essere in patria. Il buon cuore dei nostri soldati è evidente. Altrettanto evidente è, tuttavia, la difficoltà a lavorare e unirsi per il bene comune. La pavidità dei più si alterna con l’eroismo e l’ardore patriottico di alcuni individui e di singoli corpi d’armata, particolarmente gli Alpini e i Corazzieri, soldati eccellenti e migliori persino dei tedeschi. Altre importanti considerazioni belliche e culturali riguardano appunto i tedeschi, i polacchi e i russi.

In questi anni di lavoro Corti si dedica a un approfondito studio teorico e storico del comunismo: uniti alla sua personale esperienza in terra sovietica, questi studi gli faranno capire cosa esattamente stia accadendo in Russia; non solo, con lucidità intellettuale veramente unica riuscirà a spiegare i motivi del fallimento – peraltro inevitabile – dell’ideologia comunista.

Dichiara Corti:

Lo scrittore è tenuto a dar conto di tutta la realtà del proprio tempo: per questo motivo non può essere specializzato È l’unico professionista che non ha il diritto di essere soltanto specializzato. Tuttavia oggi non si può conoscere tutto: bisogna farsi una competenza autentica almeno nei settori più importanti. Io ho scelto di approfondire il comunismo (il maggior pericolo per l’umanità in questo secolo) e l’attualità cattolica (perché vedo nella Chiesa la maggiore speranza)”.

È interessante notare come Antonin-Dalmace Sertillanges, nella sua opera La vita intellettuale, aveva riflettuto sulla medesima necessità per lo studioso e lo scrittore.

Frutto di questi studi sarà la tragedia Processo e morte di Stalin, scritta tra il 1960 e il 1961 e rappresentata nel 1962. Scrive Paola Scaglione: “Da questo momento Eugenio Corti, a causa del proprio ragionato anticomunismo, è ostacolato, in modo sistematico e mal dissimulato, dalla grande stampa e dal mondo della cultura, a quel tempo ormai fortemente orientati a sinistra”.

Corti, d’altronde, illustra chiaramente quelle che sono non soltanto sue paranoie o suoi timori, bensì realtà assai ben documentate, oltre che sperimentate sulla sua pelle, e ciò gli consente di condurre una propria analisi e formulare valorosamente – e con cognizione di causa – previsioni per il futuro (che si realizzeranno immancabilmente). Lo scrittore ha visto (οἶδα) e vuole raccontare gli orrori e le stragi compiuti dai comunisti in Russia prima e dopo la Seconda guerra mondiale, dai partigiani immediatamente dopo quest’ultima (circa 40 mila vittime in Italia, per non parlare della questione del confine orientale del nostro Paese e della tragedia dell’esodo istriano-dalmata e dei massacri delle Foibe, almeno 10 mila morti e 300 mila esuli) e ancora dal comunismo in generale in Russia (50 milioni di vittime dalla Rivoluzione alle purghe staliniane ed oltre), in Cina (150 milioni le vittime del comunismo in questo Paese) e nel Sud-est asiatico (Cambogia in particolare). Tutto questo per costruire l’“uomo nuovo”! Gli studi di Eugenio Corti in materia sono ricchissimi ed estremamente metodici. Fanno conoscere in occidente – a chi li vuole conoscere – la situazione nel mondo dominato dal marxismo ancor prima che, nel 1994, Alexander Solgenitzin, in un discorso alla Duma (parlamento russo) ricordasse quei sessanta milioni di morti causati dal comunismo, cifra sulla quale nessuno, in quel Paese, ha nulla da ridire. Considera Corti:

In Italia un simile massacro, di gran lunga il maggiore nella storia dell’umanità, è come se non ci fosse mai stato: ben pochi si sono curati di appurare la verità al riguardo.

Ugualmente importante è il contributo di Eugenio Corti all’analisi della situazione economica, sociale e culturale dell’Italia nel dopoguerra e oltre, specie in merito all’abbandono della sfera culturale da parte dei cattolici. Per lui, proprio l’ambito culturale italiano è la realtà maggiormente disastrata. Infatti – dichiara Corti – il demonio ha due principali caratteristiche, quella di essere omicida (basta vedere le cifre precedentemente citate) e quella di essere menzognero. “

Adesso, conclusa la fase degli omicidi di massa, è subentrata la fase della menzogna: la portano avanti i grandi giornali, la radio, la televisione, soprattutto col sistema delle mezze verità, che impediscono alla gente comune di farsi un’idea chiara del passato e della realtà attuale. Per questo dobbiamo impegnarci a ricercare e a far conoscere la verità. Il fronte più importante oggi è quello della cultura.

E ciò perché

il comunismo non è finito. È finito quello leninista, in cui la dittatura del proletariato si esercitava tramite l’eliminazione fisica degli oppositori. Oggi in Italia ci troviamo di fronte al comunismo gramsciano, in cui la dittatura degli intellettuali “organici al comunismo” (l’espressione è di Gramsci) si esercita mediante l’emarginazione sistematica, in pratica la morte civile, degli oppositori. La cultura di sinistra oggi dominante non è svincolata dal marxismo, come noi eravamo portati a credere: al contrario, essa è, con evidenza, uno sviluppo del marxismo. [—] La grande tragedia è al suo secondo atto.

La situazione nella Chiesa

Altresì presente in lui è il rammarico per la resa di buona parte della Chiesa, specie dopo il Concilio Vaticano II, alla cultura egemone, particolarmente a causa dell’adesione acritica di una cospicua parte del mondo cattolico ad alcune idee di Jacques Maritain), personaggio che tanti, persino il papa Paolo VI, hanno visto con molta simpatia. Le idee di Maritain, contenute specialmente nel libro Umanesimo integrale, hanno spalancato le porte alle correnti moderniste nella Chiesa nel mondo e in Italia, sia in ambito popolare e politico (il “compromesso storico”) sia in quello teologico, con la predicazione di personaggi quali Karl Rahner, invano contrastati in Italia dal filosofo padre Cornelio Fabro.

Il cavallo rosso

Agli inizi degli anni ’70, Corti prende la decisione di dedicarsi completamente alla scrittura: 

Nel ’69/70 ho deciso risolutamente che, dai cinquant’anni in poi, non mi sarei occupato d’altro che di scrivere. Ed effettivamente il 31 dicembre 1972 ho troncato qualsiasi attività di ordine economico.

L’opera a cui sta per mettere mano, Il cavallo rosso, non consente nessun altra occupazione. E infatti gli undici anni di studio ed elaborazione del capolavoro assorbono completamente l’artista: d’altronde, leggendo l’opera è immediato intuire l’enorme sforzo storico e documentario fatto dall’autore per offrire un romanzo di fedeltà assoluta ai fatti e agli avvenimenti (il che è sicuramente una caratteristica fissa di tutta la sua produzione letteraria).

Eugenio Corti, dunque, dedica al suo capolavoro quasi tutto il periodo 1972/1983. Due sole sono state le attività alternative che lo hanno strappato al suo lavoro: nel 1974 entra nel comitato lombardo per l’abrogazione della legge sul divorzio, sospendendo per sei mesi l’attività di scrittura;  nel 1978, invece, collabora per un giornale locale e scrive soprattutto di Chiesa, Russia e comunismo (in particolare di Cambogia).

Dichiara Corti:

Tra i cinquanta e i sessant’anni l’esperienza di un uomo giunge al culmine (dopo si comincia a dimenticare e a confondere), mentre la sua possibilità di creare è ancora intatta.

Nel 1983 il testo raggiunge la sua forma definitiva ed Eugenio Corti lo propone a una piccola, ma attiva casa editrice, la Ares (il cui direttore, Cesare Cavalleri, è un amico e compagno di battaglie politiche), che lo pubblica nel mese di maggio (dunque esattamente 25 anni fa).

L’opera trae ispirazione dai cavalli dell’Apocalisse ed è ripartita in tre volumi:

Per il primo volume ho scelto il ‘cavallo rosso’, che in quel testo è il simbolo della guerra. Poi c’è il ‘cavallo verdastro’ (che io ho tradotto con ‘livido’), simbolo della fame (i lager russi) e dell’odio (la lotta civile). Infine l’‘albero della vita’” (che indica la rinascita della vita dopo la tragedia).

Secondo Paola Scaglione,

nella conclusione del romanzo, a un tempo carica di speranza e di drammaticità, non c’è tragedia, perché l’albero della vita ha salde radici in cielo, ma neppure può esserci un lieto fine totalmente pacificante. [—] Il teatro conclusivo della scena del romanzo non può che essere il paradiso. Per Eugenio Corti, infatti, il senso ultimo delle vicende umane si illumina solo accogliendo come punto di vista quello dell’eternità. [—] Di qui l’epilogo del Cavallo rosso, in apparenza sconsolato e tuttavia realistico e carico di profonda speranza. Il premio – sembra ricordare il Corti cristiano – non è un transitorio riaccomodarsi degli affari terreni, ma la gioia senza fine di cui è simbolo l’albero della vita.

Corti, infatti, ci insegna che l’arte cristiana non può abbandonare il realismo:

È la filosofia della croce: noi non siamo in questo mondo per essere felici, ma per essere provati. [—] Del resto, qualsiasi rapporto quaggiù deve finire con il finire della vita.

Dice bene la Scaglione quando nota che “la croce – la vita dell’uomo lo insegna ed Eugenio Corti lo ha ben appreso – coincide spesso anche con l’impossibilità di veder trionfare il bene” (ma pure la dura realtà del non trovare la corrispondenza tra la bellezza e la verità perfette contemplate dall’artista e quanto esiste, invece, su questa terra). Sullo stesso piano si esprime Cesare Cavalleri: “Il romanzo è, in un certo senso, un’epopea di perdenti, perché anche la verità può conoscere eclissi e sconfitte, pur restando intatta e vera”. Così è per il Cavallo rosso e per la storia degli uomini in generale, giacché ogni “epopea di perdenti”, ogni apparente sconfitta del bene è solo una mezza verità: il resto della storia, che a noi quaggiù non è dato di vedere, si svolge in cielo e, nella narrativa cortiana, si trasforma in “epopea del Paradiso” che si spalanca alle umane miserie.

Dopo Il Cavallo rosso

Dopo il successo de Il cavallo rosso, Eugenio Corti, di fronte all’“inarrestabile avanzata della civiltà delle immagini”, decide di dedicarsi a una nuova serie di scritti che chiama appunto ‘racconti per immagini’.

Si tratta di canovacci, stesi in base a particolari criteri, che dovrebbero servire come sceneggiature per la futura televisione, e più ancora per altri strumenti di comunicazione, forse legati al computer, che la scienza sta preparando.

Il primo di questi lavori risale al 1970 e ha come titolo L’isola del paradiso (la storia è quella dell’ammutinamento del Bounty); il secondo è La terra dell’Indio (il tema sono le Riduzioni gesuite in America del sud); il terzo è Catone l’antico (storia di Catone il Maggiore).

Alla fine della sua carriera letteraria Eugenio Corti può finalmente dedicarsi al periodo storico che più ha amato: nel 2008 esce Il Medioevo e altri racconti.

Negli ultimi anni di vita, Eugenio Corti riceve un’insolita attenzione da parte delle istituzioni: nel 2007 l’Ambrogino d’oro dal Comune di Milano; nel 2009 il Premio Isimbardi della Provincia di Milano; nel 2010 il premio La Lombardia del Lavoro da parte della Regione Lombardia; nel 2011 arriva il Premio Beato Talamoni (Provincia di Monza e Brianza); infine del 2013 il Presidente della Repubblica italiana conferisce ad Eugenio Corti la Medaglia d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte.

Nel 2011 si costituisce un comitato per proporre la candidatura di Eugenio Corti al Premio Nobel per la letteratura; la Provincia di Monza e Brianza e la Regione Lombardia approvano mozioni di sostegno all’iniziativa, François Livi, ordinario di lingua e letteratura italiana alla Sorbona di Parigi, ne è l’entusiasta sostenitore a livello accademico.

Eugenio Corti resta molto realistico sulle possibilità di vedersi attribuito il Nobel. In un’intervista del 2011 a La bussola quotidiana, dichiara:

Li ringrazio molto, ma per un cattolico oggi è molto difficile ricevere questo premio. C’è grande difficoltà ad accettare la cultura cristiana. Il Nobel è un’istituzione prestigiosa, ma in anni recenti è stato premiato anche chi con la cultura ha poco a che fare… A me basta che le mie opere siano conosciute e che magari Il cavallo rosso venga letto nelle scuole. Poi penso sempre che se non hanno dato il Nobel a Tolstoj, posso star tranquillo.

Il pensiero sull’aldilà è presente in maniera molto serena; nella stessa intervista citata poche righe fa gli viene chiesto se si vede ancora scrittore dopo la morte:

No… Penso di aver scritto abbastanza. In cielo vorrei soltanto riabbracciare i miei genitori, i miei fratelli, tutti quelli che ho amato sulla terra. Io mi sono impegnato con la penna a trasmettere la verità. Ma fino a che punto ci son riuscito è un punto interrogativo. Per me la cosa più importante è la misericordia divina. Ho fatto tanti errori, ma quando mi presenterò a Dio credo che mi riterrà ancora uno dei suoi.

Eugenio Corti si spegne serenamente il 4 febbraio 2014 a Besana Brianza.

Un maestro di vita e di scrittura

Vanda Corti, dopo una vita passata accanto al marito e dopo averne condiviso successi e sconfitte, ha dichiarato:

La realtà dello scrittore è realtà di molti sacrifici… Sacrifici nel senso che quella dello scrittore è una vita di studio, una vita pesante: nessuno se ne rende conto. È una vita di solitudine: occorre saperla accettare, perché richiede silenzio, concentrazione, rispetto.

La vita e le opere di Eugenio Corti sono per me continua fonte d’ispirazione e di speranza, di pace, di pazienza.

Poco tempo fa, la signora Vanda, con cui ho avuto l’onore e il piacere di parlare due volte al telefono e a cui ho regalato i miei libri, ha curato l’edizione di un libro che raccoglie i diari del marito dal 1941 al 1948,  Il ricordo diventa poesia. Nei diari, mi ha colpito molto una frase che Eugenio Corti aveva riportato, tratta da Bacche d’agrifoglio di Carlo Pastorino:

Ma anche per il racconto e per il romanzo non basta saper scrivere, occorrono gli argomenti. E questi ci sono dati dalla vita e dalla lunga esperienza. Solo a quarant’anni si è maturi per simili faccende. Fino a quell’età si è come fanciulli, e chi da giovane ha scritto troppo è rovinato per sempre… Io osservo che ci sono scrittori che a quarant’anni son già vecchi: han mietuto il grano in erba.  Anche Orazio dava questo consiglio: attendere. Il grano in erba non è necessario: necessarie sono le spighe.

Necessaria per lo scrittore, e per l’artista in generale, è quindi la pazienza, un antidoto all’ardore di chi si sente chiamato a una missione straordinariamente elevata, una vocazione si sente spesso incapace e indegno di rispondere:

La Provvidenza ha dei disegni speciali su di me. Alle volte io tremo al pensiero della mia indegnità anche a essere solo un mezzo nelle mani del Signore. Alle volte penso spaventato che la Provvidenza si sia stancata di fronte alle mie miserie, alla mia pochezza, alla mia ingratitudine e allora mi abbia lasciato per servirsi di un altro per giungere allo scopo cui ero destinato io; e allora prego e mi agito, e invoco il Cielo, finché, ecco, un aiuto palese della Provvidenza in un qualsiasi caso, mi rende certo che la Sua mano mi dirige sempre sulla stessa strada: allora sono felice. Io non voglio che si interpreti come un atto di superbia la mia affermazione che la provvidenza ha su di me un disegno speciale. Io mi umilio, proclamo la mia miseria senza nome, ma devo pur dirlo che è così, negarlo per me sarebbe come negare l’esistenza di una cosa materiale che si trova a me davanti.

Chi è, dunque, lo scrittore, il narratore, il cantastorie?

Nelle antiche tribù germaniche il cantastorie era chiamato “bern hard”, valoroso con gli orsi (da cui il nome Bernardo) perché scacciava gli orsi e teneva lontani i pericoli materiali e spirituali dal villaggio. Era lo sciamano della tribù, il depositario delle arti magiche e dello spirito collettivo della comunità, in pratica il custode dell’umanità (con tutto ciò che questo termine intende) delle persone, che aveva il compito di proteggere e incoraggiare, cui era tenuto a dare speranza e le cui tradizioni era incaricato di tramandare. Diceva bene Kierkegaard:

Ci sono uomini il cui destino deve essere sacrificato per gli altri, in un modo o nell’altro, per esprimere un’idea, ed io con la mia croce particolare fui uno di questi.

Uno sciamano, il paradigma dell’uomo. Lo scrittore è un cavaliere, un prode armato di una penna (oggi, magari, della tastiera di un computer) e di tanta abnegazione e combatte contro il più grande nemico degli esseri umani, un mostro terribile, orrendo nell’aspetto e feroce nel temperamento che divora gli uomini e soprattutto ne fagocita i ricordi, i sogni, l’identità stessa: la morte. Una morte, quindi, intesa non soltanto come cessazione fisica dell’esistenza terrena, bensì come annichilamento di quella interiore e spirituale, ergo nichilismo, bruttezza, noia, menzogna, sciatteria, abitudine e soprattutto, direi, oblio, smemoratezza.

Lo scrittore è l’avanguardia dell’umanità e sceglie spontaneamente, in virtù di un dono contemplativo maggiore rispetto agli altri uomini (molto spesso una ferita aperta e sanguinante, una malinconia esistenziale descritta in modo eccellente da Romano Guardini in Ritratto della malinconia), di scendere in battaglia, affrontando i mostri, gli “orsi”, la morte e combattendo l’oblio, utilizzando quella bellezza e quella verità da lui contemplate; e torna poi indietro, tra i suoi simili, ferito, stanco e deluso nel vedere che quaggiù l’assoluto, la bellezza e l’eterna bontà non regnano sovrani (appunto il realismo dell’artista cristiano). Ai suoi simili riferirà, un po’ come il primo maratoneta (Filippide, detto emerodromo: anche lo scrittore potrebbe essere un emerodromo, forse ancor più un biodromo, qualcuno che corre una vita intera avanti e indietro tra il relativo e l’assoluto, la morte e la vita, la soddisfazione di poter contemplare più di altri la bellezza e la verità e il rammarico e l’infelicità di non riuscire a vederle realizzarle su questa terra): Οἶδα (Οἶδα -oida- è un verbo greco. È il perfetto di un ricostruito presente *εἲδω -*eido. La radice indoeuropea di οἶδα è *wid che ha dato origine al campo lessicale del latino “video”, dal quale deriva quello del nostro “vedere)! Lo so, o uomini! L’ho visto! L’ho contemplato: so chi siete, so chi eravate e chi siete stati creati per essere. Voi, forse, non lo sapete più, non lo ricordate, non ci credete, ma io ve lo grido, ve lo racconto attraverso storie di tempi e persone che forse potranno sembrarvi lontani, ma si tratta di voi: voi siete dei, ognuno di voi lo è; voi siete preziosi, importanti, belli, eterni, siete eroi la cui storia è degna di essere ricordata e tramandata per sempre.

Desidero terminare con alcune righe tratte da I più non ritornano, in cui Eugenio Corti ricorda il suo amico Zoilo Zorzi, valoroso soldato caduto durante la ritirata in Russia.

I plotoni si prepararono ad andare in linea. Già la mia parte bestiale – che in quel momento aveva il sopravvento – gioiva per essermi visto risparmiare insieme con i miei amici, quando Zorzi fece inaspettatamente un passo in avanti e chiese con voce dimessa al colonnello di essere aggiunto a un plotone.

Aveva nel rustico viso veneto lo sguardo franco, come sempre, e modesto, come sempre.

Come quando, ricordavo, in Italia sopportava i colleghi che gli lanciavano qualche frizzo perché egli, dell’Azione Cattolica, non era corrivo a certi discorsi.

Il colonnello accolse la sua richiesta. I plotoni partirono subito per Arbusov.

Bellini ed io guardammo in silenzio Zorzi che si allontanava; non l’avremmo rivisto più.

Vorrei che queste mie poche, inadeguate parole fossero un canto in ricordo di lui, il migliore fra quanti uomini ho incontrato nei duri anni della guerra.

Lui ch’era d’animo semplice, e profondo nei pensieri, e amatissimo dai suoi soldati. E inoltre molto coraggioso, come si conviene a un uomo vero.

A lungo ho seguitato a sperare che tu fossi vivo, e ancora la tua voce risuonasse in qualche minima parte di quelle terre sconfinate; e silenziosamente t’aspettavo.

Intanto la neve si sarà sciolta, i tuoi panni avranno persa la rigidità del ghiaccio e sarai rimasto disteso nel fango nelle dolci giornate di primavera. E immersi nel fango e nella putredine la tua fronte e i tuoi occhi, ch’erano sempre rivolti in alto.

Avevo fatto un voto perché tu tornassi. L’avremmo sciolto insieme.

Ma tu non sei tornato! Mi ritroverò ugualmente, io credo, a parlare con te in molti momenti di questa povera vita. È così sottile il velo che separa questa vita dalla tua! Cammineremo ancora insieme, come camminavamo insieme fianco a fianco sui sentieri della steppa nei giorni dell’estate.

Pendeva nel sole, ricordi?Interminabilmente il canto sempre uguale delle quaglie, voce di quel sapore d’ignoto che avevamo intorno.

Forse le tue ossa bianche mescolate alla terra e all’erba, ancora oggi, sentono quel rustico canto, allora così suggestivo, e sembrerà un pianto.


Nell’ambito della serie di incontri I SERMONI DELL’ORATORIO SECOLARE presso la sala San Filippo Neri di Santa Maria in Vallicella (La Chiesa Nuova) a Roma il 12/4/2018 il Dr. Gerardo Ferrara tiene una conferenza dal titolo “Tra guerra e pace- Eugenio Corti, epopea di uno scrittore, di un uomo, di un cristiano”, dedicata all’autore de “Il Cavallo rosso”, libro come tutti quelli di Corti edito da Ares. In coda la citazione di San Filippo Neri di Renato De Caprio.

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