Storia del cristianesimo in Giappone
di Gerardo Ferrara

Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra (ἔσεσθέ μου μάρτυρες ἔν τε Ἰερουσαλὴμ καὶ ἐν πάσῃ τῇ Ἰουδαίᾳ καὶ Σαμαρείᾳ καὶ ἕως ἐσχάτου τῆς γῆς) (Atti degli Apostoli 1, 8).
L’anima ama la carne, che però la odia, e le membra; e così pure i cristiani amano chi li odia. L’anima è rinchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono detenuti nel mondo come in una prigione, ma sono loro a sostenere il mondo. L’anima immortale risiede in un corpo mortale; anche i cristiani sono come dei pellegrini che viaggiano tra cose corruttibili, ma attendono l’incorruttibilità celeste. L’anima, maltrattata nelle bevande e nei cibi, diventa migliore; anche i cristiani, sottoposti ai supplizi, aumentano di numero ogni giorno più. Dio li ha posti in un luogo tanto elevato, che non è loro permesso di abbandonarlo.
(Lettera a Diogneto)
Chi è il martire?
È difficile parlare di cristianesimo in Giappone – come in qualunque altra parte del mondo – senza utilizzare la parola “martirio”, un termine che deriva dal greco μάρτυς, cioè “testimone”.
Nella Lettera a Diogneto, breve trattato apologetico indirizzato a un certo Diogneto e probabilmente composto alla fine del II secolo, si parla, a proposito dei cristiani, di un luogo loro assegnato da Dio, un posto che non è loro permesso di abbandonare.
Il termine usato per definire questo luogo, questo “posto”, τάξις (táxis), indica la disposizione che un soldato deve mantenere durante una battaglia. Di conseguenza, il cristiano non è solo un testimone in senso giuridico, come chi rende testimonianza in un processo, ma è Cristo stesso, è un seme che deve morire e portare frutto. E ciò indica la necessità, per chi conosce un cristiano, non solo di sentire parlare da costui di Gesù come una qualunque figura storica che si è distinta per aver detto o fatto qualcosa d’importante, bensì di vedere, gustare, sentire Gesù in persona, presente dinanzi ai suoi occhi, Gesù che continua a morire e risorgere, una persona in carne e ossa, con un corpo che può essere toccato.
La testimonianza, il “martirio” cui è chiamato ogni credente in Cristo, non è necessariamente – come molti potrebbero pensare – la morte violenta toccata ad alcuni, ma la vita da martiri, il che conduce inevitabilmente alla κένωσις (kénosis), parola greca che indica letteralmente lo “svuotamento” e, da un punto di vista cristiano, la rinuncia a se stessi per conformarsi alla volontà di Dio che è Padre, come ha fatto Gesù Cristo per tutta la sua vita, e non solo all’atto di morire sulla croce. Se applichiamo tale definizione al concetto di santità, allora potremmo dire che tantissimi santi (e per santi non s’intendono solamente le persone canonizzate dalla Chiesa, ma tutti quelli che sono santificati da Dio) sono martiri pur non avendo sacrificato la propria vita corporale. Sono santi, nondimeno, perché la santità l’hanno testimoniata con la vita.
In questo senso, uno dei tanti modelli di santità è proprio il giapponese Giusto Takayama Ukon (1552-1615), beatificato nel 2017 da Papa Francesco e noto anche come il Tommaso Moro nipponico. In effetti, proprio come il Cancelliere d’Inghilterra, Takayama Ukon è stato una delle più grandi figure politiche e culturali del suo tempo nel suo Paese. Dopo essere stato imprigionato e privato del suo castello e delle sue terre, fu mandato in esilio per essersi rifiutato di abiurare la fede cristiana che professava. Il suo persecutore era il feroce Toyotomi Hideyoshi, il quale, nonostante i numerosi tentativi, non riuscì a piegare Ukon, il quale, oltre che cristiano, era pure un daimyo, cioè un barone feudale giapponese, nonché un eccezionale tattico militare, calligrafo e maestro della cerimonia del tè.
Storia del cristianesimo in Giappone
I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere. Questa dottrina che essi seguono non l’hanno inventata loro in seguito a riflessione e ricerca di uomini che amavano le novità, né essi si appoggiano, come certuni, su un sistema filosofico umano.
Risiedono poi in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera. Come tutti gli altri uomini si sposano ed hanno figli, ma non ripudiano i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il letto.
(Lettera a Diogneto)
Iniziamo il viaggio nella storia del cristianesimo in Giappone con altre parole della Lettera a Diogneto, che ci accompagnerà lungo il nostro excursus.
La missione cristiana in Giappone ebbe inizio proprio il 15 agosto 1549, giorno in cui lo spagnolo San Francesco Saverio, fondatore dell’Ordine dei Gesuiti insieme a Sant’Ignazio di Loyola, sbarcò sull’isola di Kyushu, la più meridionale delle quattro grandi isole che compongono l’arcipelago nipponico. I gesuiti precedettero di poco i frati francescani. Gli stranieri che giungevano nel sud del Giappone con le loro barche di colore scuro (kuro hune, o barche nere, in giapponese, per distinguerle dalle barche locali fatte di bambù, di solito di colore più chiaro), erano chiamati nan banji (barbari del sud). Erano, in effetti, considerati persone alquanto grezze e maleducate, per motivi diversi. Il primo era il fatto di non seguire le usanze del paese, tutte improntate sui codici cavallereschi forgiati dalla pratica del bushido. Tale pratica, basata sulle antiche tradizioni giapponesi e sullo Shintoismo (la religione originaria del Giappone, politeista e animista, in cui si venerano i kami, vale a dire divinità, spiriti naturali o semplicemente presenze spirituali come gli antenati) aveva come fulcro la rigida divisione della società giapponese in caste. Gli ideali più alti erano incarnati dal bushi, il nobile cavaliere, il quale plasmava la propria vita intorno alle virtù del coraggio, del fedele servizio al suo daimyo (barone feudale), dell’onore da preservare a tutti i costi, del sacrificio della vita in battaglia o attraverso il seppuku o harakiri, suicidio rituale.

Nel corso del XVI secolo, la comunità cattolica crebbe fino a superare le 300.000 unità. La città costiera di Nagasaki ne era il centro principale.
Grande impulsore di questo fiorire di nuovi fedeli fu il gesuita Alessandro Valignano (1539-1606). Questi arrivò in Giappone nel 1579 e fu nominato superiore della missione gesuita nelle isole. Valignano era un sacerdote molto preparato (all’epoca tutti i gesuiti lo erano), forte dei suoi studi da avvocato. Prima di essere nominato superiore, era stato maestro dei novizi e si era occupato della formazione di un altro italiano, Matteo Ricci, il quale sarebbe poi divenuto celebre come missionario in Cina.
L’intuizione principale di Alessandro Valignano fu di rendersi conto della necessità che i gesuiti imparassero e rispettassero la lingua e la cultura delle persone che evangelizzavano, svincolando l’annuncio del Vangelo dall’appartenenza a una cultura piuttosto che a un’altra: la fede, secondo la sua visione, andava trasmessa attraverso l’inculturazione, divenire, cioè, parte integrante della cultura locale. Egli volle altresì che i locali, i giapponesi, divenissero promotori e responsabili della missione nel loro Paese, in una sorta di passaggio di consegne che era visto come qualcosa di scioccante all’epoca.

A Valignano si deve anche il primo manuale fondamentale per i missionari in Giappone, oltre che un’opera sui costumi del Paese del sol levante, tra cui la famosa cerimonia del tè, cui chiese che fosse dedicata una stanza in ogni residenza dei gesuiti, vista la grande importanza che tale rituale riveste in Oriente. Grazie alla politica missionaria d’inculturazione praticata dal Valignano, furono diversi i notabili e gli intellettuali giapponesi, tra cui un buon numero di daimyo, che si convertirono alla fede cristiana o almeno mostrarono grande rispetto per la nuova religione.
All’interno del regime al potere, lo shogunato Tokugawa (lo shogunato era una forma di oligarchia militare in cui l’imperatore aveva solo potere nominale, poiché in realtà era lo shogun a rivestire il ruolo di capo politico del paese, assistito dai signorotti locali), e in particolare il maresciallo della corona a Nagasaki, Toyotomi Hideyoshi, vedeva con crescente sospetto l’opera dei gesuiti. Si temeva che, attraverso la missione evangelizzatrice, i missionari stranieri, forti anche del numero sempre maggiore di convertiti, potessero costituire una minaccia per la stabilità del loro potere, visti anche i rapporti privilegiati con i Paesi stranieri. E, a pensarci bene, ciò era del tutto plausibile: in effetti, in Giappone vigevano un sistema di potere e una cultura che non consideravano affatto la vita di ogni persona come qualcosa di valore. Lo stesso sistema era basato sul dominio di pochi nobili sulla massa di cittadini, i quali erano considerati alla stregua di animali (al bushi, il nobile cavaliere, era persino permesso di praticare il tameshigiri, ossia provare una nuova spada uccidendo un abitante qualunque di un villaggio). Tutto poteva e doveva essere sacrificato per il bene dello Stato e della “razza”. Non poteva quindi esistere nulla di più minaccioso, per questo tipo di cultura, del messaggio di chi predicava che ogni vita umana è degna e che siamo tutti figli di un solo Dio.
Nel 1587, quindi, Hideyoshi emanò un editto che ordinava ai missionari stranieri di lasciare il Paese. I missionari, dal canto loro, continuarono a operare clandestinamente. Dieci anni dopo ebbero inizio le persecuzioni. Il 5 febbraio 1597, 26 cristiani (6 francescani e 3 gesuiti europei, insieme a 17 terziarie francescane giapponesi), tra cui San Paolo Miki, furono crocifissi e bruciati vivi in piazza Nagasaki.

La comunità cristiana in Giappone subì una seconda persecuzione nel 1613.
In questi anni, l’élite giapponese al potere si dilettò nello sperimentare forme di tortura e omicidio sempre più crudeli e originali: i cristiani erano crocifissi; bruciati a fuoco lento; bolliti vivi nelle roventi sorgenti termali; segati in due parti; appesi a testa in giù in una fossa piena di escrementi, con un taglio sulla tempia in modo che il sangue potesse defluire e non morissero rapidamente. Era, quest’ultima, una tecnica chiamata tsurushi e veniva ampiamente utilizzata, poiché permetteva ai torturati di rimanere coscienti fino alla morte o fino al momento in cui non decidessero di rinnegare la fede calpestando le fumie (icone con l’immagine di Cristo e della Vergine).

Nel 1614, lo shogun Tokugawa Yeyasu, signore del Giappone, bandì il cristianesimo con un nuovo editto e impedì ai cristiani giapponesi di praticare la loro religione. Il 14 maggio dello stesso anno si svolse l’ultima processione per le strade di Nagasaki, che toccò sette delle undici chiese della città, tutte successivamente demolite. Da allora, i cristiani continuarono a professare la loro fede nella clandestinità: iniziava così l’era dei kakure kirishitan (cristiani occulti).
La politica del regime dello shogun divenne sempre più repressiva. Con lo scoppio una rivolta popolare a Shimabara, vicino a Nagasaki, tra il 1637 e il 1638, che vedeva coinvolti principalmente contadini ed era guidata dal samurai cristiano Amakusa Shiro, la rivolta stessa fu repressa nel sangue, e con le armi fornite dagli olandesi protestanti, i quali detestavano il papa per ragioni di fede e i cattolici in genere per ragioni soprattutto economiche (loro intento era strappare a portoghesi e spagnoli la possibilità di commerciare con il Giappone per instaurare un regime di monopolio). A Shimabara e dintorni si contarono 40 mila cristiani trucidati nella maniera più orribile. Il loro sacrificio e la loro abnegazione sono comunque ad oggi ricordati e rispettati da tutti i giapponesi, non solo dai cristiani.
Nel 1641, lo shogun Tokugawa Yemitsu emanò un ulteriore decreto, in seguito noto come sakoku (termine che indica la chiusura ermetica del Paese), in cui si proibiva qualsiasi forma di contatto tra giapponesi e stranieri. Per due secoli e mezzo, l’unica porta d’ingresso in Giappone per i mercanti olandesi rimase la piccola isola di Deshima, vicino a Nagasaki, da cui non potevano allontanarsi. Lo stesso porto di Nagasaki, tuttavia, così come i suoi dintorni e soprattutto le isole della baia offrirono un rifugio a ciò che rimaneva della cristianità.
Fu solamente il Venerdì santo del 1865 che diecimila di questi kakure kirishitan, cristiani nascosti, uscirono dai villaggi dove professavano la loro fede in clandestinità, senza sacerdoti e senza messa, e si presentarono allo stupito Bernard Petitjean della Societé des Missions Etrangères de Paris, arrivato poco prima per essere cappellano degli stranieri della Chiesa dei 26 Martiri di Nagasaki (Oura). Chiesero al sacerdote, che chiamavano “padre” (parola che si era conservata, in lingua portoghese, per secoli nel loro lessico religioso) di poter partecipare alla messa.
Grazie alla pressione dell’opinione pubblica e dei governi occidentali, la nuova dinastia imperiale al potere, i Meiji, pose fine all’era degli shogun e, pur mantenendo lo shintoismo come religione di stato, il 14 marzo 1873 decretò la fine della persecuzione e nel 1888 riconobbe il diritto alla libertà religiosa per tutti i cittadini. Il 15 giugno 1891 fu eretta canonicamente la diocesi di Nagasaki, che nel 1927 salutò monsignor Hayasaka come primo vescovo giapponese, personalmente consacrato da Pio XI.
L’olocausto nucleare
I cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. L’anima si trova in ogni membro del corpo; ed anche i cristiani sono sparpagliati nelle città del mondo. L’anima poi dimora nel corpo, ma non proviene da esso; ed anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo che si vede; anche i cristiani li vediamo abitare nel mondo, ma la loro pietà è invisibile. La carne, anche se non ha ricevuto alcuna ingiuria, si accanisce con odio e fa’ la guerra all’anima, perché questa non le permette di godere dei piaceri sensuali; allo stesso modo anche il mondo odia i cristiani pur non avendo ricevuto nessuna ingiuria, per il solo motivo che questi sono contrari ai piaceri.
(Lettera a Diogneto)
Il 9 agosto 1945 (a tre anni esatti dalla morte di Edith Stein), alle 11:02 del mattino, un’orribile esplosione nucleare scosse il cielo di Nagasaki, appena 500 metri sopra la cattedrale della città, dedicata all’Assunzione della Vergine. Ottantamila persone morirono all’istante e più di centomila rimasero ferite.

La Cattedrale di Urakami, dal nome del quartiere in cui si trovava, era e continua ad essere oggi, dopo la sua ricostruzione, il simbolo di una città martirizzata due volte: per le persecuzioni religiose di cui furono vittime migliaia di persone, in odium fidei, nell’arco di quattro secoli; e per lo scoppio di un dispositivo infernale che incenerì all’istante molti dei suoi abitanti, tra cui migliaia di cristiani, definiti dal loro illustre contemporaneo e concittadino, il dottor Takashi Pablo Nagai, “Agnello del sacrificio ucciso, per essere offerta perfetta sull’altare, dopo tutti i peccati commessi dalle nazioni della Seconda guerra mondiale”.
Due curiosità su questo terribile evento.
In primo luogo, gli Stati Uniti non avevano la necessità sganciare una seconda bomba nucleare, poiché la resa del Giappone era imminente, specie dopo che un altro ordigno era stato fatto esplodere a Hiroshima pochi giorni prima, un ordigno, però, di tipo diverso (uranio 235) e in un territorio dalla conformazione differente. Si voleva, dunque, condurre un ulteriore esperimento per misurare gli effetti di un’altra bomba, questa volta di plutonio 239, in un territorio topograficamente diverso.
In secondo luogo, il lancio del nuovo artefatto non doveva avvenire a Nagasaki, bensì in un’altra città, chiamata Kokura. Tuttavia, a Kokura il cielo era nuvoloso e ciò non permetteva di individuare il punto in cui sganciare la bomba. Al contrario, a Nagasaki, scelta come riserva, splendeva il sole, quindi il pilota optò per spostarsi nella nuova posizione e sganciare la bomba atomica sull’obiettivo designato in città, cioè una fabbrica di munizioni. Ciononostante, una volta sganciata la bomba, si verificò un nuovo imprevisto: il vento deviò leggermente la traiettoria del dispositivo, facendolo esplodere a poche centinaia di metri sopra il quartiere di Urakami, proprio sopra la cattedrale cattolica più grande dell’Asia orientale, in quel momento piena di fedeli che pregavano per la pace.

Oggi, in Oriente, in Africa e in molte altre parti del mondo, migliaia di cristiani continuano a essere perseguitati, spesso assassinati, e talvolta proprio nel momento in cui implorano Dio di salvarli dalla guerra, dalla mano dei loro nemici, pur continuando a intercedere per i propri persecutori e a perdonarli. Non è esattamente la stessa cosa che ha fatto colui cui essi si ispirano, Gesù Cristo?
Tutto questo può farci domandare, forse, qual sia la vera prospettiva, lo sguardo con cui dovremmo considerare la storia umana: il male per chi vuole e cerca il bene e la pace e il bene per chi perseguita il male? La morte per suo Figlio e i suoi discepoli e la vita tranquilla per i suoi persecutori? È davvero questo ciò che Dio ha sempre voluto?
A queste domande può rispondere molto bene Takashi Pablo Nagai, il quale non solo non ha identificato come male quella che può sembrare umanamente una delle peggiori disgrazie della storia, ma è arrivato addirittura a ringraziare Dio per il sacrificio di tanti martiri polverizzati dalla bomba, compresa la sua amata moglie Midori, della quale il medico giapponese, lui stesso gravemente ferito e affetto da leucemia, trovò, tra le macerie della sua casa il giorno dopo lo scoppio della bomba, nient’altro che ossa carbonizzate con accanto la catena del rosario.

Come per Cristo, anche per un martire, un seguace e un testimone di Cristo, il vero significato della vita è essere uno strumento nelle mani di Dio e, secondo Nagai, coloro che sono morti nell’olocausto nucleare di Nagasaki sono divenuti uno strumento del Padre per salvare un numero enormemente maggiore di vite, come egli stesso dichiarò nel corso di una cerimonia per ricordare le vittime nei pressi delle rovine della cattedrale:
Ci chiediamo: il convergere di simili eventi, fine della guerra e celebrazione della festa di Maria Assunta in Cielo, è stato un puro caso o un segno provvidenziale? Ho sentito dire che la bomba atomica era destinata a un’altra città. Le fitte nubi resero quel bersaglio troppo difficile e i piloti puntarono sul bersaglio alternativo, Nagasaki. Ci fu anche un problema tecnico, per cui la bomba fu lanciata molto più a nord di quanto era stato stabilito e scoppiò così proprio sulla cattedrale. Non fu certo l’equipaggio dell’aereo americano che scelse proprio il nostro quartiere. Io credo che fu Dio, la sua provvidenza, a scegliere Urakami e a portare la bomba esattamente sulle nostre case. Non c’è forse un profondo rapporto tra l’annientamento di Nagasaki e la fine della guerra? Non fu forse Nagasaki la vittima scelta, l’Agnello del sacrificio ucciso, per essere offerta perfetta sull’altare, dopo tutti i peccati commessi dalle nazioni della Seconda guerra mondiale.
La nostra Chiesa di Nagasaki ha mantenuto la fede durante centinaia di anni di persecuzione, quando la nostra religione era stata messa al bando e il sangue dei martiri scorreva copioso. Durante la guerra, questa stessa chiesa non ha mai smesso di pregare, giorno e notte, per una pace che fosse duratura. Non era dunque proprio questo l’agnello senza macchia che doveva essere offerto sull’altare di Dio? Grazie al sacrificio di questo agnello diversi milioni di persone, che altrimenti sarebbero cadute vittime delle devastazioni della guerra, sono state salvate.
Questo dovrebbe essere anche il nostro sguardo, l’unico sguardo possibile sulla storia, nonché la sola prospettiva di vita, per un cristiano e per un “martire”, un testimone di Cristo:
Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna
Vangelo di Giovanni 12, 22-24
Bibliografia di riferimento:
Takashi Paolo Nagai, Le campane di Nagasaki, Luni, 2014.
Inazo Nitobe, Il Bushido, Edizioni Mediterranee, 2017.
Adriana Boscaro, Ventura e Sventura dei gesuiti in Giappone, 1549-1639; Cafoscarina, 2008
Rino Cammilleri: Shimabara no Ran: Il crocifisso del Samurai, Rizzoli, 2013.
Shusaku Endo: Silenzio, Corbaccio, 2016.
Hisayasu Nakagawa: Introduzione alla cultura giapponese, Bruno Mondadori, 2006.