Rieccomi a scrivere dopo un periodo di vacanza dal lavoro, dal computer, da internet e dalla città.
Come ogni anno, trascorro le festività natalizie nel profondo sud, dove non esistono autostrade, né aeroporti, né stazioni ferroviarie, né turisti, né luci sfavillanti, né rumori, né clamori. Tutto appare lontano e distante, la notte è più scura, il giorno più luminoso, il sole più abbagliante e le stelle più brillanti; il freddo è più pungente e il caldo più intenso; i contorni e i colori sono più definiti e i sapori più decisi. E’ la terra dei contrasti. Si ha l’impressione di vivere in un mondo a parte, benché ci si trovi solo a poche centinaia di chilometri da Roma.
Mi piace, di tanto in tanto, vagare per i vicoli del borgo antico, dove ho trascorso i miei primi anni, alla ricerca degli odori e dei suoni perduti della mia infanzia… Perduti, sì, perché ormai quasi più nessuno vive nelle antiche case ammucchiate sulle stradine strette, una volta brulicanti di vita, di bambini, tra cui ero anch’io, che giocavano a nascondersi e a rincorrersi, di vecchiette sedute al sole a ricamare e a chiacchierare, di piccole auto, come la 500 rossa di mia madre, o di Ape Piaggio che rombavano e si districavano agilmente tra le strettoie, segnalando il loro arrivo con il clacson o semplicemente con il suono scoppiettante del motore che a me sembrava quasi una musica. C’erano anche banditori, venditori, asini che portavano in groppa i contadini di ritorno dal lavoro nei campi. Le porte, ormai sprangate, una volta erano costantemente aperte sui vicoli e da esse si spargevano mille odori, dal ragù della domenica, alla salsiccia di maiale, alla cipolla soffritta, ai peperoni arrostiti sul fuoco.
Che cosa ne è, ora, di quel mondo incantato? La casa della mia infanzia è ora là, abbandonata, i muri scrostati e i vetri infranti, in attesa di qualcuno che torni a vivere tra le sue pareti cadenti. Di molte vecchiette che conoscevo e che, alcune volte, facevo impazzire con i miei scherzi di bambino impertinente, ora non resta che una piccola foto su una lapide nel cimitero locale, divenuto ormai più popolato del paese dei vivi cui appartiene. Questo è il destino di chi nasce e cresce in questa parte d’Italia in cui, come qualcuno ha detto e dice ancora, Cristo non è arrivato: vivere una vita tranquilla, molte volte schiava del conformismo, del clientelismo e della corruzione che uccidono qualsiasi tentativo di far rifiorire una civiltà in letargo da secoli, una vita segnata dal servilismo nei confronti di chi, in cambio di un voto, procura un posto di lavoro stabile e sicuro e verso cui si resterà debitori a vita, come di un padrino, o “compare”, che da queste parti conta quanto e più di un genitore o un fratello. L’alternativa è l’emigrazione o la morte!
Personalmente, non sono e non sono mai stato un cantore della “meridionalità”, un appassionato e nostalgico difensore dell’orgoglio del sud contro l’invasore padano. Ritengo, infatti, che ognuno sia responsabile delle proprie scelte di fronte a se stesso, a Dio e al mondo di cui fa parte.
Da parte mia, ho scelto di andarmene, non per disprezzo verso il mondo da cui provengo, ma per la promessa di un futuro migliore, libero dai condizionamenti e dai pregiudizi di una realtà feudale, lontano dall’ingombrante certezza di beni materiali e di rapporti umani ai quali essere devoto come nei confronti di un dio reclamante sacrifici che Dio stesso a me non ha mai chiesto, non più schiavo di un ruolo già scritto che avrei dovuto recitare per tutta la durata della mia esistenza, al di là degli schemi precostituiti che ostacolavano la libera espressione del mio pensiero. Non condanno chi è rimasto e non voglio certo accusarlo di mancanza di personalità, di libertà o di dignità. Tutt’altro! Semplicemente confesso che io non sarei stato una persona libera, qualora fossi rimasto. Per estensione, inoltre, oserei dire che il mio “sud”, che ho lasciato per divenire un emigrante e trovare una terra promessa in un altro luogo, è un concetto non solamente geografico e territoriale: esso rappresenta il mio passato, l’uomo che ero, con le sue schiavitù, i suoi sogni limitati, la sua intelligenza e i suoi talenti prigionieri del desiderio di affermazione e di riscatto. Non ho lasciato solo l’Italia meridionale e il mio paese d’origine, ho abbandonato la persona che credevo di essere, le catene che mi tenevano prigioniero, le ambizioni che mi soffocavano, per divenire un ebreo errante, come Abramo.
Ero stanco di sentirmi un albero secco e di pensare che la mia vita sarebbe finita con una foto su una lapide in un piccolo cimitero senza prima aver portato un frutto duraturo. Mi chiedevo che senso avesse la vita, per un essere umano, se alla fine la morte distruggeva ogni speranza con il dolore della separazione, dell’annientamento, della putrefazione. Ricordavo le discussioni, da ragazzo, in classe nell’ora di filosofia: “se l’essere è, non può entrare in contraddizione con se stesso, non può non essere più”. Sentivo che io esistevo, che ero qualcuno, mi ostinavo, e mi ostino ancora, a credere che la vita non sia destinata a finire su questa terra: se sono figlio di Dio, “Colui che è”, se è da Lui che vengo, come posso non essere più, cessare di esistere? Allo stesso modo, ero consapevole che, affinché la mia esistenza davvero non finisse ma, al contrario, desse origine ad altre vite, dovevo cambiare, lasciare la mia terra e i miei beni e recarmi in un’altra terra, dove scorrono latte e miele, ma anche sangue e fiele, e in cui, nonostante la mia incapacità di dare la vita, avrei dato origine ad una discendenza numerosa come le stelle del cielo e la sabbia del mare, una terra in cui sarei finalmente potuto “essere”.
Da allora, ho abbandonato, come Abramo la sua Ur dei Caldei, la mia patria, in senso geografico, spirituale, affettivo, uccidendo dolorosamente ogni giorno l’uomo vecchio che ero perché, attraverso la sua morte, Dio faccia sgorgare linfa vitale per l’uomo nuovo che deve nascere e crescere; ho tagliato rapporti, intessuto nuovi legami, smussato angoli, costruito ponti dove era necessario ve ne fossero e ne ho abbattuti dove, invece, non dovevano esservene; ho gettato reti e raccolto e tenuto ciò che era buono, abbandonando ciò che non lo era; ho volato e navigato lontano, per cercare in ogni posto un mattone da aggiungere alla nuova costruzione cui volevo dare origine; ho curato le vecchie ferite, laddove era possibile farlo, fasciando quelle che non era possibile guarire in quel momento, in attesa di trovare chi fosse in grado di sanarle per sempre, senza mai fermarmi e mai stancarmi.
Alla fine, ho trovato quello che cercavo e ho scoperto chi sono. Questo mi dà la forza di continuare la mia opera di distruzione e ricostruzione.
Ogni tanto, mi fermo ancora a guardare il mio passato, la mia infanzia, l’uomo vecchio: molte rovine sono ancora lì, a volte dentro di me, a tormentarmi e a regalarmi qualche notte insonne. Tuttavia, il fatto di averle abbandonate e destinate all’abbattimento mi consola e questa nuova consapevolezza trasforma il dolore e la nostalgia in tenera malinconia, prima, e, successivamente, in affettuoso distacco: io non abito più là.
Per concludere, ricorro anche qui, come in precedenti riflessioni, alla filologia ebraica e semitica ed alle Sacre Scritture affinché siano esse ad aiutarmi nell’esprimere ciò che desidero: Abramo, capostipite degli ebrei e nostro padre nella fede, lasciò, per ordine di Dio, la sua terra, Ur dei Caldei, in Mesopotamia, e il suo popolo d’origine, gli aramei, per divenire un “ebreo”, che significa letteralmente persona di passaggio, errante. La radice del termine indica, nelle sue diverse accezioni, sia il passato (anche quello di un verbo) che colui che passa. Nella forma arcaica della lingua ebraica, invece, la radice del nome di Dio, Yahwé, indica non solo Colui che è, ma Colui che fa essere. In un certo senso, il Signore chiama Abramo e tutti noi a divenire persone radicate in Lui, non più nelle nostre misere certezze quotidiane, fatue e passeggere come l’erba del campo.
Agli occhi del mondo, sembrò che Abramo fosse pazzo, che abbandonasse le proprie sicurezze per divenire un emigrante, un vagabondo. Agli occhi di Dio, invece, Abramo divenne un uomo radicato nella fede in Lui e il Signore glielo accreditò come giustizia, come dice San Paolo, e lo benedisse, facendolo diventare, a sua volta, un suo strumento di benedizione. Abramo, uomo vecchio e senza figli, non trasse più la sua esistenza dalle cose che possedeva, bensì da Dio e, come Lui, divenne “colui che fa essere”, poiché diede origine ad una discendenza numerosa come le stelle del cielo e la sabbia del mare.
Desidero essere come Abramo e divenire figlio di Dio, per trasformarmi in “colui che fa essere”, che dà la propria vita agli altri perché questi ne abbiano in abbondanza (ovviamente una vita che ricevo e che non viene da me). Ho cambiato patria e nome, come Abramo, e, come lui, voglio chiamarmi “padre di moltitudini”, perché il mio scopo non è più quello di fermarmi a piangere sugli spiccioli e sulle rovine del passato, ma andare avanti verso la terra promessa, la vita eterna, l’essere e il far essere.
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