Caro figlio,
Anche se non sei ancora venuto al mondo, ti scrivo questa lettera perché mi è stato annunciato che un bambino nascerà per me, mi sarà donato un figlio. All’inizio non ci credevo e ho riso. Poi l’incredulità ha lasciato spazio alla speranza e la speranza alla fede.
Prima di dirti ciò che vorrei, desidero, tuttavia, dedicarti una poesia ebraica, musicata da una cantante che a tuo padre piace molto, l’israeliana Noa:
Uri
Se avessi un figlio, un bambino piccolo,
vispo e dai riccioli neri,
Lo condurrei per mano a passeggio
per i sentieri del giardino.
Il mio piccolo!
Lo chiamerei Uri, Uri mio!
Quant’è dolce e chiaro, questo piccolo nome,
come un barlume di gioia per il mio bambino!
Lo chiamerei Uri, sì, Uri.
Ma sono ancora sterile come Rachele,
Sto ancora pregando come Anna a Silo.
Lo aspetto ancora, lo aspetto.
Lo aspetterò.
Devi sapere che qualche anno fa, quand’ero un po’ più giovane e nacque tua cugina, figlia di mia sorella, cominciai a sentire un gran desiderio di paternità. Lo confidai, allora, a una persona che conoscevo, donna in carriera, diventata madre a quarant’anni perché prima era troppo occupata, la quale mi consigliò di dedicarmi quanto più potevo al lavoro, al successo e alla realizzazione dei miei progetti e delle mie ambizioni professionali, non facendomi condizionare dal mio “orologio biologico” – questa è l’espressione che usò – che rischia di compromettere la vita di tutte le povere giovani vittime che, a una certa età, già prima dei trent’anni, cominciano a sentire il desiderio di costruirsi una famiglia, di amare qualcuno e avere dei figli con quella persona. Dio ce ne scampi! Come si può pensare di limitare i propri sogni e il proprio “io” perché venga al mondo qualcun altro?
E’ buffo, ma fino ad allora la pensavo esattamente come lei e, viaggiando in continuazione, cambiavo continuamente città, Paese e lavoro, cercando sempre l’occasione buona per avanzare da un punto di vista professionale ed economico, per essere il migliore fra i migliori, il numero uno. Poi, un profeta mi disse che, da uomo, non ero chiamato ad essere schiavo dell’ansia di correre dietro a desideri sempre più irraggiungibili (in questo mondo in cui tu nascerai non si è mai contenti di nulla e si è sempre in crisi), ma che, al contrario, dovevo iniziare a comportarmi da padre, per poi essere pronto a diventare un genitore. Che cosa voleva dire questo? Non era facile da capire, anche perché, come ad Abramo, mi veniva chiesto di lasciare tutto ciò che conoscevo, le mie certezze, le mie ambizioni, la mia vita di cui io ero il protagonista assoluto e l’unico architetto! Il profeta mi ripeteva che tutte queste cose non erano che briciole, che avrei potuto avere mille volte di più, se solo lo avessi voluto, ma dovevo smetterla di vivere per me stesso. Bella faccia tosta! Chi era costui per dirmi che cosa dovevo fare della mia vita? E poi, che cosa mi si offriva in cambio delle mie “briciole”, che a me, invece, sembravano così importanti?
Devi sapere, figlio mio, che oggi il mondo non è più quello del nostro antenato Abramo: ora possiamo decidere come vivere la nostra vita senza dipendere dalle stagioni, dalla siccità, dai capricci della natura. Oggi abbiamo frutta fresca a volontà da tutto il mondo, beviamo acqua liscia, gassata, altissima, purissima, dietetica, povera di sodio, ricca di minerali, al sapore di frutta, ascoltiamo musica per strada e ci inviamo messaggi, post, tag, tweet. Come ci viene ripetuto in continuazione, siamo nell’epoca della tecnologia, della libertà, del motto “è tutto intorno a te”, del sesso libero in ogni sua forma, degli acquisti online, delle consegne a domicilio, della morte assistita e “dolce”… Siamo noi che scegliamo, come cittadini, se essere maschi, femmine o transgender; tutti siamo in grado avere vite virtuali, preferendole molte volte a quelle reali. Vi è, inoltre, una grande attenzione per le tematiche relative all’ambiente, alla salvaguardia della natura, delle piante e degli animali. Se oggi, come il nostro antenato Abramo, io decidessi di andare a caccia o a pesca, di ammazzare un agnello per accogliere degli ospiti o di sacrificare un toro per una cerimonia, susciterei la pubblica indignazione e vi sarebbe una sollevazione generale! Tutti sarebbero scandalizzati, si straccerebbero le vesti e mi darebbero del bruto, dell’insensibile e dell’incivile. Se, invece, caro bambino mio, io e tua madre sacrificassimo te, in nome della nostra libertà, della proprietà del nostro corpo, del diritto a gestire liberamente la nostra esistenza, la nostra carriera e le nostre relazioni sentimentali, se decidessimo di farti a pezzi prima della tua nascita, raschiandoti ed aspirandoti come un pezzo d’intonaco da una parete che si vuole ritinteggiare, oppure, dopo la tua nascita, ti trascurassimo perché dobbiamo vivere la nostra vita, realizzare le nostre aspirazioni e fare le nostre esperienze, questo sarebbe considerato non solo legittimo, ma anche auspicabile, indicherebbe addirittura che la società si è evoluta! Tempo fa, infatti, ascoltavo in radio i risultati di una ricerca dell’Unione Europea sull’emancipazione femminile e il nostro Paese risultava arretrato perché molte donne preferiscono ancora sacrificare la propria carriera per essere madri più presenti; e si trattava di un sondaggio sulla volontà delle donne, non sulla presenza o meno politiche sociali volte a migliorare l’occupazione femminile. Evidentemente, questo non è considerato, nel nostro modernissimo continente, un diritto o una decisione presa nella più totale autonomia, mentre il contrario lo è.
Da un certo punto di vista, il fatto di godere di tutta questa apparente libertà e, nello stesso tempo, di sentire che non si è veramente responsabili nei confronti di nessuno – perché, in fondo, la vita va vissuta andando “al massimo, a gonfie vele”, divertendosi finché è giovani e senza rimpianti – mi spingeva a pensare che avrei avuto ancora tanto tempo per desiderarti e per prepararmi bene affinché tu trovassi un ambiente ricco d’amore e di stabilità ad accoglierti nel momento in cui fossi venuto al mondo. D’altra parte, tuttavia, il non condividere questa mentalità, il credere ancora che ci siano dei valori assoluti ed il rifiuto di pensare che il fine ultimo della vita sia quello di godere dei piaceri terreni – pur avendo provato, nella mia giovinezza, grande divertimento e grande piacere in ogni cosa, senza la necessità di ubriacarmi o drogarmi – perché sono convinto che questo mondo non sia che l’anticamera della nostra vera esistenza, mi hanno fatto sentire poco adatto a diventare padre, sentendomi fuori moda, poco “cool” e, di conseguenza, poco divertente per un figlio, nonché poco attraente per un’ipotetica moglie.
A che cosa sarebbe servito, dunque, abbandonare le mie certezze e le mie “briciole” per diventare padre e prepararmi a diventare genitore? Che cos’avrei avuto in cambio?
Innanzitutto, posso dirti che ho compreso che desiderarti è un bene, ma averti non è un diritto! Crescere un figlio vuol dire avere a che fare con un’altro essere umano, unico e complesso: il bambino diventerà un uomo e la bambina una donna. Ti sembrerà strano, ma questo non era ovvio per me! Tante persone provano tenerezza e affetto per i bambini, finché questi sono piccoli, ma altrettante – me compreso – non riescono sempre a rendersi conto che poi quei cuccioli irresistibilmente teneri e delicati crescono e diventano ribelli, autonomi, reclamano il loro spazio e in alcuni casi sfuggono dal nostro controllo, finendo nel tunnel della droga, della disperazione, della contestazione a tutto quanto suoni come “regola”, del libertinaggio. Molte volte mi sono chiesto come facciano quelli che sono già genitori a continuare ad amare degli ex bambini che diventano anarchici, tossicomani, ladri, assassini, maleducati, black block, o, semplicemente, adulti! Non avevo capito che, evidentemente, è proprio quando una persona è adulta che la si può amare davvero, divenendo adulti noi stessi.
Rinunciare alle mie certezze, allora, significa rinunciare ad essere un bambino che pretende di affermare se stesso e di monopolizzare su di sé l’attenzione degli altri, che vorrebbe essere sempre padrone della propria vita e di quella degli altri, che fa i capricci ogni qualvolta la vita e le persone non gli danno quello che egli vorrebbe.
Se un giorno tu nascessi, e quindi io avessi un figlio, anch’io, come nella poesia, vorrei portarti a spasso per il giardino, sentire che mi ami, che desideri la mia protezione, che sono il tuo eroe… Per te imparerei a giocare a calcio, tollererei cose che ora non tollero, cercherei di essere un uomo migliore. So, tuttavia, che questo non basterebbe. Dovrei insegnarti a essere felice anche nei momenti tristi, ad avere speranza anche quando il mondo ti dice che speranza non ce n’è, a credere anche nei momenti in cui sembra non vi sia alcun Dio. Per farlo, devo diventare un padre prima che tu arrivi nella mia vita, imparando ad essere padre per altri figli, incarnando nella mia vita ciò che vorrei trasmettere a te: dovrò comportarmi da uomo per insegnare a te a diventare un uomo; dovrò sperare per dimostrarti che cos’è la speranza, pregare con te per insegnarti cosa sia la preghiera, amare per mostrarti che cos’è l’amore.
Al momento, può sembrare che anch’io sia ancora sterile come Rachele, Abramo e Zaccaria, perché non ti ho ancora avuto e non so se mai ti avrò, benché ci speri e ci creda. Tuttavia, se mi guardo intorno, scopro che posso essere padre per tante persone che hanno bisogno di me e mi accorgo di essere già diventato, come Abramo, padre di moltitudini. Non so se mai ci conosceremo, ma, se un giorno nascerai, mi troverai qui ad aspettarti. Mi sto già allenando alla palestra della paternità per insegnarti non solo a giocare a pallone.
Con amore
Tuo padre
L’ha ribloggato su Lacapannadellozioblog.