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Sono cresciuto in un posto pieno di strade strette e tortuose, vicoli e ripide salite. Dalle mie parti siamo abituati a percorrerli sfrecciando in macchina e in motorino. Mi annoia la vista delle grandi pianure, delle vallate sconfinate, dei paesaggi piatti. Forse è per questa ragione che continuo a camminare, da sempre, sulla stessa strada stretta e tortuosa che, come dice una stupenda canzone dei Beatles, mi conduce alla porta di qualcuno.

Sì, anche nella mia vita è presente quella strada, l’ho scelta tanti anni fa e mi ha portato nei luoghi più impensabili, attraverso colline, praterie, deserti, spiagge e montagne. L’ho desiderata, quella strada, anche quando il percorrerla mi è costato lacrime e sangue, mi ci sono ancorato, inchiodato con tutte le mie forze perché essa non è comoda, non è asfaltata, non è larga. In alcuni tratti, le rocce che spuntano da sotto il terreno feriscono i piedi…

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Nella tradizione ebraica, andare in Terra d’Israele vuol dire elevarsi, sia spiritualmente che fisicamente. Israele e Gerusalemme sono stati per secoli, anche per i cristiani, i luoghi più alti della terra, tanto che chi vi si reca a vivere o vi compie un pellegrinaggio è detto, in ebraico, ‘oleh, cioè “colui che va verso l’alto”, e persino la compagnia di bandiera israeliana si chiama El Al, “verso l’alto”, perché conduce non tanto verso il cielo, ma in Israele.

In un certo senso, andare in pellegrinaggio in Terra Santa, se questo avviene come è stato per me, ovvero insieme a delle persone amate e che mi amano davvero, amici e compagni di un comune cammino di fede e di vita, è non soltanto andare verso l’alto, ma anche sprofondare negli abissi della coscienza, esattamente come scendere da Gerusalemme verso Gerico e la depressione del Mar Morto, il punto più basso…

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