Verso l’alto (El Al – אל על)

scala cielo

Una premessa: non sto scrivendo quest’articolo per pubblicizzare la compagnia di bandiera israeliana, ma per il senso che ha il suo nome: El Al (אל על), che in ebraico vuol dire “verso l’alto” (e con un doppio senso: “alto” è il cielo, ma “alta” è anche la Terra d’Israele, verso cui gli aerei della El Al volano. Israele, infatti, in particolare Gerusalemme, sono, per gli ebrei così come per i cartografi cristiani medioevali, il punto più alto della terra, il più vicino a Dio, tanto che gli immigrati in questo Paese si definiscono “olìm” – dalla stessa radice “Al” – cioè ‘coloro che salgono’).

Scrivo, invece, perché, come tutti gli esseri umani, sono sempre, costantemente alla ricerca di un senso, di uno scopo, di una missione, di qualcosa per cui valga la pena vivere.

E’ strano pensare che gli animali, le piante, persino i microorganismi meno evoluti, se ci riflettiamo, uno scopo nella vita ce l’hanno eccome: mangiare e riprodursi per poi, a loro volta, essere mangiati o servire da concime per il terreno. Non hanno bisogno di interrogarsi continuamente, non hanno bisogno di scervellarsi, di cercare, di pregare, di ridere, di sognare, di piangere o disperarsi.

Noi no.

Ogni essere vivente, a questo mondo, espleta una funzione e occupa un posto preciso. Se gli squali non esistessero, il mare sarebbe una pattumiera; se i fiori non fossero così belli, le api non ne verrebbero attratte e i semi delle piante non sarebbero trasportati lontano dai venti e dagli insetti, per cadere poi in un luogo fertile ed originare una nuova vita. Persino le zanzare hanno il loro ruolo nel creato.

Noi no.

Se sparissimo dalla faccia della terra, non credo che le altre specie sentirebbero la nostra mancanza; se ci estinguessimo, per chi sarebbe un danno?

Eppure, il nostro cervello si è evoluto in maniera tale da farci credere di essere necessari, eterni, insostituibili. A quale scopo, poi, se dobbiamo finire a marcire sottoterra e tutto finisce lì?

Trovo difficile affermare, come farebbe un ateo, che non esiste una Ragione più alta della nostra e che siamo il frutto di un’evoluzione casuale, quando nulla, nel mondo, è casuale, quando la natura, a differenza di quanto spesso crediamo, ha sempre scritti, in sé, nelle sue leggi, nei suoi processi, il perché, il come, il quando e il dove. Non v’è evoluzione o regola naturale che possa spiegare la perfetta inutilità dell’essere umano – quando non l’estrema pericolosità di questo per la sopravvivenza del mondo stesso – giacché questo è ciò che, per natura, siamo: un manipolo di infelici costantemente alla ricerca di qualcosa che in questo mondo non troveranno mai. La natura non avrebbe potuto commettere uno sbaglio tanto grande.

Non può essere tutto frutto del caso, anzi, può esservi solo una spiegazione: siamo al mondo perché qualcuno ci ha voluti, perché era bello che ci fossimo, perché, per quel qualcuno, dovevamo esserci.

Sono alla mia scrivania e contemplo le pile di fogli bianchi e le cartellette color senape, immaginando che gli uni siano spuma del mare che si infrange sulle scogliere del mio grigio tavolo da lavoro e che le altre siano sabbia e roccia del deserto del Negev, in Terra Santa. Vorrei essere là, ora.

Poi, la mia mente si interroga su quanto instabili siano le mie emozioni: le cose e le persone che più amo sono proprio quelle che, un istante dopo, detesto; voglio essere in un posto e un minuto più tardi vorrei andarmene; smanio per avere una realizzazione professionale, una carezza, una soddisfazione, un successo e, nel momento in cui le ho ottenute, non riesco a goderne per più di un secondo.

Niente, in questo mondo, può darmi pace, nessuno può donarmi qualcosa che sia in grado di saziare completamente la mia sete di amore ed eternità. Forse è perché io sono eterno, ma ciò che mi circonda non lo è e quello per cui sono stato creato, quello a cui sono destinato, non si trova qui.

Cercare le cose di lassù, andare verso l’alto. Questo è il nostro destino di creature in pellegrinaggio su questa terra. Amore celeste, non terrestre; amicizia celeste, non terrestre; vita celeste, non terrestre.

Ho come l’impressione di trovarmi sempre dinanzi a una scala collegata al cielo, direttamente comunicante con Colui che è la fonte di ogni mio bene. Se davvero è così (e io credo che lo sia), dovrei dunque smetterla di scavare nel fango e nel terreno alla ricerca di tesori caduchi e salire più spesso per quella scala, raggiungere il cielo (ai cristiani questa possibilità è stato data e si chiama sacramento) e prendere da lassù ciò che mi serve, modellando la mia esistenza quaggiù, donando a piene mani di quanto ho ricevuto e che non viene da me.

Solo cercando le cose di lassù, andando sempre verso l’alto, il grigiore di una scrivania, il bianco dei fogli e il senape delle cartelline possono trasformarsi in terra, mare e roccia, in fuoco e in acqua, in Amore vero, in uno scopo degno: servire, offrire, dare la vita, anche quando tutto sembra impossibile, brutto, insensato, inaccettabile.

Cercare le cose di lassù, dove Cristo è assiso alla destra del Padre. Questo è il senso di tutto.

 

Omelia del Santo Padre Benedetto XVI, Santa Messa in suffragio dei cardinali e vescovi defunti nel corso dell’anno, 4 novembre 2010

 

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