La casa del pane

Stamattina, appena svegliatomi, sentivo il bisogno di un buon pezzo di pane… Non di rosette, di panini all’olio, al latte, alle patate, di pancarré o di surrogati vari cui siamo abituati nelle nostre città. No, avevo voglia di pane genuino, quello delle mie parti, tipo pugliese: croccante fuori e morbido dentro, magari con un po’ d’olio d’oliva sopra, quello che sa di lavoro, di campi, di farina e di attesa paziente, di paese e di radici, di festa all’uscita da scuola, di mamma (che oggi compie gli anni!) e  di pranzo caldo che ti aspetta a casa. Non avendone nella mia dispensa, mi sono subito rifatto con dei dolciumi che ho ricevuto in dono da alcuni colleghi e amici in questi giorni prenatalizi. Il mio stomaco – e soprattutto il mio cuore – non erano, tuttavia, molto soddisfatti di ciò che avevo propinato loro: il mio corpo e la mia anima reclamavano il pane, quello vero, quello dell’infanzia e della famiglia e di tutto ciò che tali concetti significano.

Non ero per niente allegro, stamattina. La notizia di un ragazzo, uno studente lavoratore, morto per guadagnarsi cinque euro all’ora allestendo il palco per il concerto di Jovanotti (personaggio e musicista che aborro, con buona pace dei suoi estimatori) a Trieste, mi ha rattristato; il pensiero di recarmi a passare la mia intera giornata facendo un lavoro che non amo, che non mi fa sentire affatto contento di tutti i sacrifici da me affrontati nella mia vita per studiare e realizzare i miei sogni, un lavoro che comporta, tante volte, umiliazioni e ingiustizie subite solo per compiacere persone di cui non ho la minima stima, mi faceva venire voglia di tornare a letto e di restarci, anche se fuori c’era un bel sole; infine, la prospettiva della solita giungla urbana, tra resse su autobus che non passano mai, tentativi di non finire investito da macchine e scooter e orde barbariche di turisti gracchianti i quali, senza volerlo, con la loro andatura esitante e così poco romana si interpongono tra me e la mia pur non agognata destinazione; tutte queste cose rendevano il giorno che stava iniziando apparentemente indegno di essere vissuto. Tutti noi, uomini e donne, siamo accomunati dal fatto di vivere su questa terra e di affaticarci, lavorare dalla mattina alla sera, per poi comprare e mangiare un pane che non è quello vero, quello che può soddisfare non solo il nostro stomaco ma anche il nostro cuore, bensì il surrogato di ciò che in realtà desidereremmo.

Indegno… Quante volte ognuno di noi ripete questa parola a se stesso, alla propria vita, a quella degli altri e alla realtà che lo circonda? Io lo faccio troppo spesso. Mea culpa! Ciò che scrivo è indegno di essere letto; ciò che faccio nella vita è indegno di considerazione; il mio inquadramento professionale è indegno del mio curriculum; il mio stipendio è indegno della mia professionalità; tale persona è indegna della mia amicizia e io, a mia volta, sono indegno della sua; eccetera, eccetera, eccetera. Se tanto mi dà tanto, sembra quasi che io debba smettere di vivere, intrappolato come sono in questo diabolico circolo vizioso che è l’ideologia del do ut des, del riconoscimento per ciò che faccio, del diritto a qualcosa in base alle mie capacità, del lavoro per lo stipendio, dello scrivere e del vivere stesso in cambio dell’approvazione degli altri, degli stessi amici, del matrimonio e dei figli concepiti come strumento per la mia gratificazione personale e per il riempimento dei vuoti causati dalla mia solitudine, dei rapporti di qualunque genere, da quello di coppia a quello con la propria famiglia, vissuti come luogo e spazio per isolarsi da una realtà troppo triste e insicura e non come fonte di forza, coraggio, valore e amore per cambiare proprio la realtà da cui si vuole fuggire.

Una risposta a tutti questi miei farneticanti interrogativi mattutini mi viene proprio da ciò che stiamo per festeggiare in questi giorni, il Natale di Gesù Cristo, e dalla piccola città in cui questo ha avuto luogo due millenni fa: Betlemme, in Giudea. Il nome di questa località, composto da due diversi termini ebraici, significa “casa del pane” (בית =beth, casa; לחם = leḥem, pane). Curiosamente, il nome arabo di Betlemme, simile a quello ebraico, deriva anch’esso da due diversi termini, ma significa “casa della carne” (ﺑﻴﺖ = bayt o beyt,  casa; لَحْمٍ = laḥm, carne). Lo stesso nome, nelle antiche lingue sudarabiche, avrebbe il significato di “casa del pesce”. Tutte le lingue citate sono di origine semitica (per intenderci, sono detti semitici quegli idiomi, antichi e moderni, diffusi in Asia e in Africa settentrionale e orientale e di cui fanno parte l’accadico, l’aramaico, l’ebraico, l’arabo, l’amharico e altre lingue) e sono accomunate, oltre che da notevoli somiglianze grammaticali, sintattiche, fonetiche e lessicali, dal fatto che in esse un morfema – anche detto radice – di tre o quattro lettere o suoni dà origine, con l’aggiunta di prefissi e suffissi o tramite diversa vocalizzazione, a una parola. Ciò indica che, da una stessa radice di tre lettere, è possibile ricavare tantissime parole ricollegate al significato originario della radice di provenienza. Nel nostro caso, quello del nome composto di Betlemme, abbiamo due radici: b-y-t che dà origine a Bayt o Beth; l-ḥ-m che dà origine a Leḥem o Laḥm. In tutti i casi Bayt/Beth vuol dire casa, ma Laḥm/Leḥem cambia significato in base alla lingua. La risposta va ricercata nella provenienza delle popolazioni cui tali lingue appartengono. Gli ebrei, come gli aramei e le altre popolazioni semitiche nord-occidentali, vivevano nella cosiddetta Mezzaluna fertile, ovvero una vasta area tra la Palestina e la Mesopotamia in cui è possibile praticare l’agricoltura e, di conseguenza, erano un popolo sedentarizzato. La loro principale fonte di sostentamento era, dunque, il pane, insieme ai frutti del lavoro della terra. Gli arabi erano una popolazione nomade o seminomade della parte settentrionale e centrale della penisola arabica, prevalentemente desertica. Essi, dunque, traevano dalla caccia e dall’allevamento il loro principale sostegno, il che faceva della carne il loro cibo per eccellenza. I sud-arabici, infine, vivevano sulle coste meridionali della penisola arabica e il loro alimento principale era costituito dal pesce. Da ciò possiamo comprendere come mai la stessa parola, in tre lingue semitiche diverse, abbia come significato tre alimenti diversi.

Di conseguenza, è possibile notare come Betlemme non sia tanto la casa del pane, della carne o del pesce, bensì la casa del vero cibo, quello di cui non si può fare a meno, quello da cui dipende la nostra stessa sussistenza, quello senza il quale non è possibile vivere. C’è stato un momento in cui la città di Betlemme è davvero stata la casa del Vero Cibo, vale a dire quando ha accolto Gesù che nasceva in una mangiatoia (luogo da cui gli animali, e non gli uomini, traggono il proprio nutrimento). Poi, però, Gesù stesso ha detto di sé: “La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda” (Gv 6, 51-58), aggiungendo che colui che mangerà del suo corpo e del suo sangue vivrà in eterno. Ora, noi cristiani crediamo che, nutrendoci di Cristo nell’Eucarestia, mangiamo e beviamo il suo corpo e il suo sangue, vero cibo e vera bevanda. Dunque, Betlemme non è più una cittadina della Giudea: Betlemme, la casa del Vero Pane, del Vero Cibo, siamo noi che ci nutriamo di tale Cibo! Ciò che stiamo per celebrare non è solamente il primo Natale del Signore, ma anche il preludio di ciò che sarebbe successo in seguito, quando quella mangiatoia, quel presepe, quel tabernacolo saremmo divenuti noi stessi.

Come si ricollega questo con l’indegnità di cui parlavo all’inizio? Come si concilia questa “buona novella” con la mia tristezza mattutina, con la delusione e la mancanza di fiducia nei confronti del mondo, delle persone e di me stesso? In effetti, è apparentemente inconciliabile. Come può uno come me essere Betlemme e cibo per gli altri? Certo, Gesù mi chiede di dare io stesso (e me stesso!) da mangiare al mio prossimo, ma è una responsabilità troppo grande e io ne sono, penso ancora una volta, indegno! La mia speranza, tuttavia, diventa viva più che mai quando comprendo che non sono io il Pane, ma sono solamente la casa del Pane. Il mio compito è quello di lasciare che il Vero Cibo trasformi me e la mia vita in qualcosa di nuovo, per non essere schiavo dell’ideologia del do ut des, dell’approvazione degli altri, del perfezionismo, del modo in cui il mercato ha plasmato questa società ed ha mercificato le persone, del bisogno di riempire i vuoti della mia anima con surrogati che non potranno mai veramente soddisfarne la sete di Verità. Ogni cosa diviene allora più chiara ed io posso uscire di casa la mattina senza pretendere che tutto mi sorrida, ma nutrendomi del Vero Pane e  lasciandomi, a mia volta, spezzare come il pane. Magari non sarò fragrante come una bella pagnotta appena sfornata, ma ho imparato dalla saggezza popolare della mia terra d’origine che il pane si può utilizzare in mille modi, anche se è ammuffito o raffermo: si può sempre, infatti, tagliar via la parte andata a male, continuando a usare anche solo la mollica in mille modi, o la crosta per grattugiarla; o, addirittura, intere fette possono essere abbrustolite sul fuoco e condite con olio e pomodoro, o ancora bagnate nell’acqua e insaporite in diverse maniere. La cucina italiana, tra le più rinomate in tutto il mondo, si caratterizza proprio per il saper trasformare anche gli avanzi e gli ingredienti meno raffinati in succulente ghiottonerie.

In pratica, per apprezzare la bellezza della vita – e per farla apprezzare agli altri – occorre lasciarsi cucinare, magari a fuoco lento, condire, insaporire, tagliare, spezzettare, tritare da Colui che è Vero Cibo; occorre considerare se stessi come l’ingrediente di qualcosa, magari anche solo un pizzico di lievito o di sale, per modificare completamente le categorie e gli schemi della nostra esistenza, sostituendo il concetto di carriera con quello di servizio, privilegiando quello di dono rispetto a quelli di successo e riconoscimento, abbattendo quello di denaro per far spazio a quello di Provvidenza. E’ un processo lungo, doloroso e pieno di ostacoli, ma davvero liberatorio, necessario, imprescindibile per non avere più paura di vivere, di buttarsi in un progetto, di sognare e di credere che sia possibile cambiare il mondo, lo stesso mondo che aspetta che sia proprio io a dare un contributo che nessun altro può dare, a scrivere o pronunciare parole che nessun altro può scrivere o pronunciare, a morire in un modo in cui nessun altro può morire, dando la vita ogni giorno per qualcuno. Che bello è pensare che, in un universo ricco di sapori, di profumi, di bontà e di ineffabile bellezza, il Vero Cibo, Colui che è allo stesso tempo chef e pietanza, si aspetta che io, piccolo, insignificante ingrediente, doni la giusta consistenza alla ricetta che Egli vuole preparare, come un pizzico di lievito nel pane!

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