Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno l’oscurità mi copra e intorno a me sia la notte»; nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno (Salmo 138)
Sono un uomo che vive di parole, le cerca, le desidera, le fa sue, ci gioca, ne analizza il significato, l’origine, la storia, la traduzione e la pronuncia in altre lingue; sono uno che vorrebbe lavorare con le parole, raccontare storie utilizzandone le più belle e preziose, incantare chi mi legge e mi ascolta per portarlo a viaggiare lontano, in altri mondi, o forse nel mio, che è già abbastanza complicato.
Sono anche un uomo che vive di note. Non so descrivere il mio rapporto con la musica. A dir la verità, più che un rapporto è una simbiosi, un percepire la realtà in modo a volte diverso da chi non ha nella musica una chiave della propria esistenza. Sin da piccolo, mi arrampicavo sulla sedia per ascoltare, per ore intere, un vecchio giradischi; con la mia tastierina Bontempi suonavo le prime melodie prima di iniziare ad avere il ricordo di tante e tante altre cose, piacevoli e spiacevoli; esercitavo le mie dita su un piano o, in mancanza di quello, su un tavolo quando gli altri allenavano le gambe con un pallone; studiavo l’armonia, il solfeggio e il canto quando i miei coetanei erano in vacanza per l’estate, dopo gli esami e la scuola.
Tutto questo vivere di note e parole ha plasmato profondamente il mio modo di essere. Spesso, da bambino, mi bastava ascoltare il suono di un aspirapolvere per sentire una melodia o scorrere un elenco telefonico per immaginare storie, miti ed avventure di chi portava nomi che reputavo particolarmente interessanti.
Il vento, la pioggia, la doccia, la ventola del computer, tutto per me non è un rumore, ma un suono, così come ogni parola non è semplicemente un agglomerato di lettere ma un insieme complesso di tante componenti che non sto qui a spiegare.
Il problema è che, sovente, le singole parole rischiano di diventare più importanti della frase che esse compongono, così come le singole note possono distrarre dall’opera di cui esse non sono che un piccolo tassello.
Così avviene, oggi, per noi esseri umani e per la nostra esistenza quotidiana: sembra che alcune nostre peculiarità siano divenute più importanti di noi, di ciò che siamo. Si esaltano certe caratteristiche, giuste o sbagliate che siano, per creare delle categorie che forzano la nostra natura e la grandezza della nostra essenza. Omosessualismo, positivismo, progressismo, relativismo piaiono mirare proprio a questo: abbattere l’unità della persona, la sua unicità ed irripetibilità, l’indivisibilità del suo essere in nome dell’esaltazione e dell’assolutizzazione di aspetti, come la sessualità, che non sono nulla se estrapolati dall’estrema complessità della storia di ogni individuo, come se un uomo fosse solo il suo apparato riproduttivo, solo il suo cuore, solo il suo cervello e non la somma di tutte le componenti, somma che, in un essere umano, diviene non più divisibile in quanto preponderante rispetto ai singoli fattori. In pratica, l’uomo è come un numero primo, indivisibile.
Personalmente, pur cercando da una vita intera di definirmi, di classificarmi in base a determinate caratteristiche, agli studi, a particolari gusti e sensibilità, talenti e doti, difetti e pregi, non sono ancora riuscito a comprendere me stesso. L’unica conclusione a cui sono giunto è che sono un uomo, quindi un maschio (se fossi donna, ovviamente, sarei femmina!), e che sono figlio di Dio.
Già, Dio. Se ci pensiamo, il rischio che corriamo con la creatura è il medesimo che corriamo con il Creatore: non comprenderlo nella sua pienezza, in nome dell’insensata smania di affannarci a coglierne singoli aspetti che non possono essere messi da parte e isolati rispetto agli altri. Dunque, alle volte Dio è per noi misericordioso, altre giusto, altre buono, altre potente, altre ancora umile. Mai tutto insieme. Il risultato è una divinità schizofrenica, incoerente e disunita con se stessa, la quale, come logica conseguenza, produce un’umanità con identiche caratteristiche. In sostanza, ciò che facciamo oggi è come ostinarci a pensare che la Patetica di Beethoven sia un la bemolle anziché un’intera sonata in più tempi e che lo stesso Beethoven sia un dente, o un dito, o un capello bianco o ancora un orecchio sordo anziché un uomo, la cui immensa grandezza è data non dalle singole peculiarità, ma da come queste in lui si sommavano e si armonizzavano. Questa è la mia sensazione.
Certo, io, naturalmente, non oso proporre soluzioni e non mi permetto neanche il lusso di credere di essere in grado di capire fino in fondo il problema.
C’è, però, un momento, un solo momento, in cui ho come l’impressione di toccare me stesso, di comprendermi in pieno, nel quale i miei aggettivi e le mie singole note scompaiono, anzi, si fondono tra loro, quando si dissolvono i limiti spaziali e temporali e mi sembra di salire più in alto del sole e di scendere più in basso delle profondità del mare, di vincere la notte e di essere, finalmente, libero. Non è un semplice stato d’animo, non è semplice felicità – così come noi intendiamo una gioia protratta nel tempo – e non è neanche solo divertimento. No, direi che è libertà assoluta, è umanità pura, è diventare chi sono, ciò che sono.
Questo momento, solo mio, è quello in cui si spengono le luci della mia chiesa e io rimango, per un po’, davanti al tabernacolo illuminato da un piccolo faro e nessun altro è intorno a me, ci siamo soltanto io, Gesù ed il mio piano elettrico. In quell’istante, in cui io comincio a cantare ed a suonare per lui, le note si fondono in una melodia e la mia voce, pur non essendo quella di un grande cantante, non è da meno di quella degli angeli, poiché colui per il quale canto e suono rende sublime tutto ciò che io produco, non importa se di scarso valore artistico, semplicemente perché è per lui. Anche il silenzio diviene canzone, anche la noia, la tentazione, il pianto o il sonno, tutto si fonde armoniosamente. Là, infatti, io non sono più un conservatore o un progressista, un braccio o una gamba: sono la creatura perfetta, così come essa è stata concepita, sono io, spogliato dei miei aggettivi e finalmente riunito a colui da cui traggo vita. E poiché lui non ha aggettivi, non è definibile, non è mortale e io sono stato fatto a sua immagine, anch’io divento come lui, la mia voce è la sua voce, le mie mani le sue mani. Non canto, ma cantiamo; non suono, ma suoniamo; non vivo, ma viviamo.
Non mi manca più nulla per essere chi davvero sono e tutte le cose che cercavo di avere, tutti i complimenti che desideravo, le acclamazioni che sognavo, le lodi cui aspiravo e, ancora, i dolori di cui volevo liberarmi, le ferite che mi soffocavano e le preoccupazioni che mi seppellivano, ogni cosa sparisce, portata via come foglie dal vento. Rimango solo io, io con lui.
E se questo fosse il paradiso?
Ti regalo questo mio testo, ispirato alle tue parole e alla tua musica.
Grazie
Io sono i miei occhi
Ti vedo,
bellezza di pietra e mattoni
linea di cielo
spartiacque solido di uomini.
Ti vivo,
passi e sussurri
la donna sui muri,
grani tra le mani.
Ti comprendo,
parole incise sui fogli,
segni di tela e figure scolpite,
tue menti e tue mani
Ti sento,
voce di uomo,
parole di bambini,
silenzio.
Ti apro,
prendi il sospiro affannato
prendi il mio grido
prendi me.
Io sono i miei occhi,
Io sono i pensieri,
io sono il cuore che scoppia.
Tu sei la mia carne.
Grazie davvero di cuore!
Proprio in questi giorni riflettevo sulla “scomposizione dell’uomo” a partire da un testo (A. De Saint Exupery – Cittadella) che mi aveva colpito molto:
“Perché come avviene per l’albero, non sai nulla dell’uomo se lo estendi per la sua durata e lo scomponi nei suoi elementi. L’albero non è seme, poi stelo, poi tronco flessibile, poi legno secco. Non bisogna scomporlo per conoscerlo. L’albero è quel potere che lentamente sposa il cielo. La stessa cosa avviene per te, mio piccolo uomo. Dio ti fa nascere, ti fa crescere, ti colma successivamente di desideri, di rimpianti, di gioie e di sofferenze, d’ira e di perdono e poi ti chiama a sé. Tuttavia tu non sei né quello scolaro, né quel bambino, né quel vecchio. Tu sei colui che si effettua. E se saprai scoprirti ramo dondolante, attaccato saldamente all’olivo, nelle tue oscillazioni assaporerai l’eternità”.
Grazie per aver inconsapevolmente arricchito la mia riflessione!
Nic
L’ha ribloggato su Lacapannadellozioblog.